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Domenico Quirico, prima di essere sequestrato dai jihadisti in Siria era un moderato esponente di quella "gauche caviar" che fa così tendenza in Italia. Firma eccellente nel quotidiano degli Agnelli, sempre misurato nei modi e nella punteggiatura, era un sobrio cultore e difensore delle primavere arabe e dei frutti che si illudeva avrebbero portato. Poi il drammatico sequestro in Siria e la lunga detenzione. Il suo rilascio ci ha alfine consegnato un altro uomo, molto meno caviar e molto meno gauche ma con molto crudo realismo nel valutare la situazione. Un uomo che finalmente pare avere compreso in quale direzione scorre il fiume e quale sia la sua sponda. Questo articolo apparso sul suo giornale, La Stampa, offre la misura di quanto ha inciso quel sequestro sul suo modo di vedere le cose del mondo....

Gianni Fraschetti

 

 

 

di Domenico Quirico -

 

Da Tora Bora a Bengasi: avanzano, galoppano davvero i fattucchieri della devozione islamica, i grandi e piccoli sensali del nuovo Califfato universale, quelli che vivono di santa guerra, le fronti aggrottate da una lugubre dottrina, le facce serrate come casseforti. 

 

E in mano sempre il coltello per liquidare, redimere, punire. La rivoluzione, anche quella fanatica in nome di Dio, si apre silenziosamente, come un fiore di ferro. La abbiamo tra i denti, la mastichiamo. Questo vento che si leva. Così avvengono i grandi rivolgimenti umani, semplici e tremendi.  

 

Li avevamo lasciati, (ricordate i tempi preistorici di Al Qaeda, gli untorelli del terrore planetario, gli antemarcia dell’islamismo trionfante?), braccati dalle bombe americane tra i remoti graniti delle montagne afgane: periferici, isolati, vinti. Sì, vinti! E adesso i loro eredi hanno quasi scardinato la terra e presidiano il giallo adusto delle pietre mediterranee fulminate dal sole. Sprofondati nel passato e sulle labbra solo le parole del tempo che fu, tradizionalisti per cui un abuso diventa legge solo perché dura da sempre, che aspirano ad essere guidati dai morti, che si sforzano di relegare l’avvenire e la palpitante passionalità del progresso al mondo delle favole, già reggono, da padroni, la Mezzaluna fertile, Siria e Mosul, le terre dell’acqua e del petrolio. Questa canaglia barbarica si prepara a riprendere Kabul; salmodiando con la morfina del loro paradiso obbligatorio e le raffiche dei kalashnikov tiene le rive del Niger e percorre, di nuovo spavalda, le piste del Sahara e le savane della Somalia e del Kenya. La dossologia di questo colossale, sanguinoso Salmo della penitenza diventa territori, Stati, frontiere, eserciti: ecco la novità. I terroristi si son trasformati in soldati, i congiurati ora sono califfi, emiri, qaid. 

 

L’avanzata impetuosa della Insorgenza Globale islamista è ormai un fatto: e i fatti sono assoluti in se stessi e in tutte le loro peripezie. Improvvisamente, dopo Bengasi, tutta la Storia diventa sinottica e simultanea a tal punto che è possibile sovrapporre e annettere strettamente sotto il nostro sguardo gli avvenimenti che finora ci sembravano più disparati e distanti. 

 

Eppure la proclamazione dell’Emirato a un’ora di volo dall’Europa, l’annessione esplicita della prima tra le primavere arabe non sembra sollevare attenzione. La sensibilità resta intorpidita, attonita in questa Europa dalle cattedrali ingiallite, dalle risse medioevali, dalle economiche rivalità belluine. Un eguale fatalismo riconcilia nella stessa ebetudine le vittime e i carnefici. Sì, la avanzata dell’islamismo fa veramente paura il giorno in cui ti accorgi che ne respiri, tra ciucche parolaie, quasi inconsapevolmente e senza trasalire l’aria insulsa e sanguinosa. Tutto il mondo musulmano è chiuso e incatenato, milioni di sudditi recalcitranti e impauriti si dibattono già nell’Interdetto islamista. Ogni giorno depenniamo lembi che non possiamo più percorrere. A Tripoli, a Baghdad si sbarrano le ambasciate, fuggono i residenti occidentali, le imprese indietreggiano abbandonando mezzi e denaro: segni chiari della ritirata, della sconfitta. Il nostro mondo democratico e tollerante si restringe, si rannicchia, in attesa dello schiaffo e della iniziativa degli Altri. Abbiamo accettato come un fatto compiuto il califfato a Mosul; la annunciata controffensiva dei Nostri, gli alleati dell’America, eran solo parole. Ora accetteremo l’emirato di Bengasi e poi quello di Tripoli e di Maiduguri e di Gao e chissà quali altri. Fidando nella decrepita sottigliezza del nostro genio del compromesso e del distinguo. 

 

In Libia gli islamisti mettono mano su un bottino che vale mille volte più che le armi moderne razziate in Iraq. Non è il petrolio. L’oro nero non interessa gli islamisti: Allah l’ha dato e può toglierlo. Quello che interessa loro sono gli uomini, la loro obbedienza, le loro anime. In Libia ora diventano padroni di decine di migliaia di disperati, i fuggiaschi dell’Africa, i migranti, i «subsahariani», i sudditi della crudeltà di questo tempo che pone ciascuno davanti a una legge di violenza e di sangue e fa l’uomo nemico di se stesso fin nelle inclinazioni più limpide e naturali. Depredati e respinti, alla spiaggia dell’ultimo balzo, quello verso il mondo dei ricchi, cercano qualcuno che ridia loro una fede. Gheddafi ne aveva intuito il potenziale nocivo, ma li usava per i suoi mediocri ricatti minacciando di scagliarceli addosso come onde umane. 

 

Ma erano le braverie di un baro. Ora con gli islamisti sarà diverso, non possiamo blandirli con dollari e inchini. Hanno manipolato le menti e i cuori di migliaia di ragazzi europei, trasformandoli in zelanti mujaheddin in cerca del martirio in Siria e altrove. Lo rifaranno, ancor più facilmente, con i dannati dell’Africa. 

Le nostre carte? Erano mediocri e mal scelte. Come sempre. In Iraq masse urlone e raccogliticce di sciiti corrotti; a Bengasi Khalifa Haftar, un generale fellone che Gheddafi liquidò non perché ne temesse i sussulti democratici, ma perché con un esercito sterminato si era fatto umiliare nella famosa «guerra dei Toyota», dai predoni ciadiani. Era a libro paga della Cia, ovviamente. Per anni ha abitato a due passi dalla sede dell’Agenzia, a Langley. A questo velleitario golpista hanno dato soldi e armi. È scappato: di nuovo.  

 

Ci rassicuriamo da questa parte del mare in discussioni ridicole e infantili, ne vengono fuori goffaggini crudeli, strepitose: «… in Libia in fondo gli islamisti hanno perso le elezioni … ci penseranno i deputati a tenerli a bada a colpi di costituzione ...addestreremo la polizia…».  

 

Intanto, loro, rapidissimi, trasformano la miseria di un Paese in una specie di famelica patologia. La fede la trasformano in una concezione estranea alla vita, squilibrata rispetto al mondo, una specie di cancro che assorbe tutte le forze vive, (così è stato in Siria, in Iraq, in Libia, in Somalia, in Nigeria), che occupa tutti gli spazi, schiaccia la vita e diffonde il contagio fino al culmine della guerra oppure all’asfissia soffocante di un ordine senza pietà.  

 

 

 

 

 

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