(Gianfrasket) - Se il ministro degli Esteri Gentiloni aveva improvvidamente ventilato la possibilità di un intervento militare italiano in Libia, un motivo c'era, c'è, e si aggrava di minuto in minuto. Questo motivo, anzi questi motivi, sono la questione energetica e il contenimento dei flussi migratori illegali che, da quando è stata spazzata via la Jamahiriyya, sono ripresi a ritmi sempre più intensi.
I “migranti” o clandestini, se preferite, arrivavano via mare anche con Gheddafi, ma era un flusso ridotto e tenuto sotto controllo ed è innegabile che, con la Libia sempre più somigliante alla Somalia, la situazione, anche per quanto riguarda il traffico di esseri umani, sia diventata praticamente insostenibile.
Oltretutto, con la proclamazione dell’affiliazione di parte della Cirenaica al Califfato del Levante islamico, in arte ISIL o ISIS oppure IS, i motivi di preoccupazione, dal nostro punto di vista, non possono che aumentare. Sia perché i “jihadisti” s’insinueranno a centinaia tra coloro che sbarcano illegalmente in Italia, un pericolo che viene stoltamente smentito, sia perché essendo il cosiddetto “fondamentalismo islamico” una creatura dei servizi d’intelligence occidentali, bisogna assolutamente tenere d’occhio gli sviluppi in quella che non ha mai smesso di essere, per noi, la “quarta sponda”.
E' bene fare chiarezza su un punto, le milizie “islamiste”, allo stato dell'arte, non costituiscono alcun problema dal punto di vista strettamente militare. Non hanno capacità di proiezione di forza in grande stile e quindi i famosi 400 chilometri di mare sono attualmente un limite invalicabile per loro. Almeno in forma massiccia e organizzata.
Diverso è il discorso se vediamo la cosa con altra prospettiva. Quale? ce ne sono diverse. Dico le prime che mi vengono in mente. Catturano una grossa motovedetta della Guardia Costiera, uccidono l'equipaggio, ne prendono il posto, imbarcano un centinaio di guerriglieri travestiti da puveraz, arrivano a Pantelleria sotto mentite spoglie e sgozzano tutti: militari, civili, uomini, donne, bambini, cani. gatti e pappagalli. Una follia? pensateci bene e vedrete che tanto follia non è. Oppure lanciano un sos, e il primo mercantile che arriva per portare soccorso lo catturano e se lo portano in Libia e poi magari decapitano un marinaio al giorno...Insomma, con un po' di fantasia ce ne sono mille di cose da fare. Volendo.
Ed ecco dunque, al di là delle chiacchiere e degli stop and go, perché un secolo dopo lo “sbarco a Tripoli” del 1911, si ricomincia a pensare di riconquistare la Libia o, perlomeno, di far sì che non vi si crei una situazione troppo negativa per i nostri interessi laggiù.
L’attacco proditorio alla Jamahiriyya, che, e in questo Berlusconi era stato eccezionale, aveva stipulato con l’Italia un accordo magnifico dopo anni di faticose trattative, venne portato unilateralmente dalla Francia e dall'Inghilterra, soprattutto, che utilizzando sul terreno armati locali e tagliagole di ogni risma, reduci da altre “guerre sante” per procura, ebbero la meglio sull’esercito regolare. Complici non da poco l'aviazione NATO e le Forze Speciali francesi, inglesi, italiane e qatariote che a terra fecero piazza pulita. Sullo sfondo, quale convitato di pietra, la Turchia, grande sponsor di ISIS e che storicamente non ha mai smesso di puntare al controllo della Tripolitania e della Cirenaica (infatti la guerra del 1911-12 è chiamata “Italo-turca”, ed è bene ricordare che, all’epoca, tutto il resto dell’Africa del Nord era colonizzato da Francia e Inghilterra).
Ora, l’Italia afferma timidamente di voler far qualcosa, “sotto mandato dell’Onu” of course - anche se non ce ne sarebbe bisogno - perché sa benissimo chi e perché ha voluto fare della Libia un campo di battaglia. La nostra politica estera è inscindibilmente legata alle alterne fortune dell’Eni, che in Libia rischia di essere sempre più estromesso qualora essa finisse nelle mani di un “califfato” che parla inglese e francese.
Dunque, bisogna far qualcosa, e su questo non c’è dubbio. Specialmente perché la crisi ucraina e l'abbandono del progetto South Stream non inducono all’ottimismo energetico. E se ci aggiungiamo i tentativi di scatenare una “primavera” o una “ribellione” in Algeria, tutti sedati dall’esercito fino a ora, il quadro è preoccupante. Forse più che preoccupante visto che il gas algerino è l'ultima risorsa, al momento certa, che ci tiene in vita. Pensateci.
Ma la domanda principale che a questo punto dovremmo porci è la seguente: se non siamo stati in grado allora, nel 2011, quando eravamo in una posizione certamente migliore di quella odierna, di far valere il nostro punto di vista e fermare l'aggressione franco-britannica, ma anzi siamo stati costretti a partecipare contro ogni logica e interesse nazionale, come faremo, questa volta, a imporre la nostra linea contro chi – è sempre bene ricordarselo – detiene sul nostro territorio oltre cento basi e installazioni militari? E infatti all'ONU la questione si avvia per le lunghe, a differenza di quando si dovette bombardare la Libia di Gheddafi.
Dio non voglia che, sotto gli squilli di tromba a fasi alterne di un ostentato “orgoglio nazionale”, l’Italia si accodi, per l'ennesima volta, a un ruolo da comprimario, di stolto e masochista portatore d'acqua, dilapidando soldi e vite umane, per realizzare infine solo l’ennesimo autogol. A giudicare dal comportamento ondivago di Renzi, le prime forti tirate di orecchie sono evidentemente già arrivate. Avremmo dovuto e forse anche voluto fare la locomotiva in questa vicenda che ci riguarda da molto vicino, ma dovremo accontentarci, come al solito, di fare il vagone postale. L'ultimo del convoglio, e se ci agganceranno. Così hanno deciso i padroni della ferrovia.