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Speculare alla favoleggiata «stolidità» e «arrendevolezza» e «viltà» che hanno caratterizzato gli ebrei coinvolti, indifese vittime, nell’Olo­causto sta quindi, inscindibile per la riscossa contro gli eterni Difenso­ri delle Tenebre, l’Immagina­rio di Masada con l’altrettanto favoleg­gia­ta «caparbie­tà», «resisten­za» ed «eroismo» degli antichi zeloti (in realtà, bande di sicarii, assassini saccheggiatori dei villaggi circostanti, lungamente ignorati dai romani e finalmente «tirati giù dalle spese» tre anni dopo la caduta di Gerusalemme): l’eterna arroganza che riscatta l’eterno vittimismo.

È infatti in tale luogo, l’antica fortezza a picco sul Mar Morto conquistata dai romani dopo un lungo assedio, che dopo l’adde­stra­mento di base e prima dell’incorporazio­ne nei reparti i coscritti israeliani passano una notte, giurando all’alba eterna fedeltà allo Stato ed al popolo ebraico: «Israel’s most symbolic place is Masada», scrive M. Hirsh Gold­berg: «Masada lo tipol shenit, Ma­sada non cadrà più, Masada shall not fall again».

Delle im­pressioni riportate in proposito dall’insigne storico «tedesco/ameri­ca­no» del nazio-nalsocialismo George (Gerhard) Lachmann Mos­se durante le sue numerose visite in Israele riferisce Emilio Gentile: «Quando [nel 1951] vidi il nuovo esercito israelia­no, o assistei al giuramento dei para­ca­duti­sti a Masada, il mio cuore prese a battere più forte. Sebbene non igno­ras­si il pericolo di venire ammaliato dalle immagini e dalla liturgia, e avessi scritto più volte sulla loro utilizzazione nel manipolare gli uomini, io stesso non ero affatto immune dalle forze irrazionali che come storico deploravo – special­mente quando si trattava del gruppo cui ritenevo di appartenere.

Aggiunge Nachman Ben-Yehuda, docente di Sociologia a Gerusalemme: «[Già al momento della fondazione di Israele] i membri dei movimenti giovanili ebraici erano spiritualmente maturi per il mito di Masada, cosa che li aiutava a prepararsi al supremo sacrificio, al martirio e alla lotta all’ultimo sangue. Inoltre, il mito di Masada si basa su una potente costruzione sociale di legame ideologico e identificazione coi ribelli ebrei, valicando un abisso di due mllenni, un legame di natura etnica, religiosa e nazionale-storica. Il mito di Masada, che rafforza tali legami, fu pensato per fornire un saldo fondamento di eroismo a un nuovo tipo di identità nazionale ebraica […]

L’ascesa a Masada e la cerimonia furono dunque pensate per familiarizzare una nuova generazione di giovani e ignoranti immigrati ebrei con Israele, con una delle maggiori componenti della nascente identità ebraica israeliana e del suo legame col passato […] Il racconto mitico di Masada fu un blocco costruttivo importante nella fondazione simbolica del moderno Stato di Israele. Generazioni di giovani ebrei furono socializzate nello Stato alla luce di Masada. Il racconto mitico di Masada contribuì a foggiare il nocciolo identitario di centinaia di migliaia di giovani israeliani. Invero, l’irritazione espressa da tanti israeliani quando furono costretti a rilevare la differenza tra il racconto di Giuseppe Flavio e il nuovo mito è una potente testimonianza del bisogno di continuare a credere sia in tale mito sia nel senso che il mito aveva creato»…”

 E che dire di Masada e del Muro del Pianto? La definitiva picconata al primo Immaginario – altro che «the sacrosanct ruins of Masada» di Rabbi Michael Gold­berg… già nel 1979, del resto, ci dice Nachman Ben-Yehuda, Baila Shargel ave­va pub­bli­ca­to su Judaism il demistificatorio The Evolution of the Masada Myth! – viene inferta nel luglio 1997 dal crollo del trentennale imbroglio ideato dallo «scopritore» Yigael Yadin, ufficiale e archeologo, poi vice primo ministro, figlio del docente dell’Uni­versità Ebraica E.L. Sukenik.

Dopo Luciano Tas (qualcuno dice «Masada non è mai esistita», «Shalom» n.3/1992) e Cre­mo­ne­si ( Il mito di Masada, «CdS», 2 giugno 1994) , disinvol­tamente deluso è il Corriere della Sera: «Un duro colpo a uno dei miti dello Stato ebraico, uno dei simboli storici più venerati in Israele: le ossa umane [i resti di 24 indivi­dui], ritrovate sulla rocca dove sorse Masada, la città distrutta dai soldati romani nel 73 d.C. e diventata simbolo dell’indi­penden­za di Israele, non sono quelle dei difen­so­ri del­la città, ma quasi certamente appar­ten­go­no ai mili­ta­ri della nemica Roma. Responsa­bile di que­sta operazione “revisioni­sta” ai danni delle eroi­che spoglie portate alla luce e risepolte con tutti gli onori nel 1969 è l’antropo­logo israe­liano Joe Zias, esperto del Diparti­mento per le antichi­tà. La prova sbandie­rata, il detta­glio che imbratta il mito, non è altro che un mucchio di ossa di immondi suini».

Identificate come tali fin dalla scoperta, nel 1991 Yadin ne aveva iffuso una versione di comodo, concordata col capo­rab­bi­ Isser Yehuda Unterman: i 960 zeloti che avevano prefe­rito il suicidio di massa alla resa «avrebbe­ro utilizzato i maiali per smaltire la spazzatura, come fecero in tempi più recenti gli ebrei del ghetto di Varsa­via». Ora, a parte che, essen­do il maiale l’Im­puro par excellence e quindi dagli ebrei non commesti­bile, dopo aver compiu­to la bisogna gli animali avrebbero dovuto essere riconse­gnati ai romani, loro forni­tori diretti o indiretti, che ne avrebbero fatto certo buon uso, la giustificazione untermanica ci sembra tirata per i capelli.

E così sembra anche a Zias per Masa­da: «Perché gli zeloti dovevano ricorrere ai suini, quando avrebbe­ro potuto gettare i rifiuti in testa agli assedianti? […] Il colpo di scena è arrivato di recente con la lettura di un volume sulle usan­ze funebri degli anti­chi romani. Lì, tra le pagine più minimaliste della storia, Zias scopre che nella Roma imperiale una tomba po­te­va con­siderarsi in regola solo dopo che fosse stato sacri­fica­to un maiale. Ed ecco la scoper­ta che infanga il mito: i suini erano lì a vegliare sulle spoglie romane» (tra l’altro, le ossa umane recuperate sono in tutto 208, mentre un corpo umano ne conta 248.

Equilibrato Ben-Yehuda: «[Capita che un sistema di credenze si basi] su una serie di pretese ingannevoli e decisamente non obiettive [very biased], quando pure non falsificate […] Il cosiddetto racconto mitico di Masada è un sistema di credenze di tal genere: una pretesa moralistica costruita ad hoc». Altrettanto sconvolgenti per il pio credente sono le conclusioni dello storico Ernest L.Martin e dell’archeologo ebreo Benjamin Mazar quanto al Wailing Wall.

Secondo i due, il «Muro del Pianto» o, all’ebraica, «kotel ha-maaravi, Muro Occidentale», tale definito nel Cinquecento dal «divino» rabbino cabbalistico Yitzchak «Ari Zal, il Santo Leone» Luria ha-Ashkenazi e tuttora considerato parte delle mura del Secondo Tempio (Bayit shení), quello rovinato nel 70 al termine dell’assedio, non è in realtà che una parte delle mura della Fortezza Antonia, mantenendo esso le caratteristiche e le dimensioni dell’unica struttura della Gerusalemme erodiana in grado di ospitare i 5000 soldati.della Decima Legio. Meta di pellegrinaggio e considerato «sacro» solo a partire dal XVI secolo, prima di allora i fedeli pregavano in direzione ovest da un sito posto più ad oriente, il Secondo Tempio sovrastando la fonte Gihon.

Intuibile l’estremo disagio della rivoluzionaria scoperta: per mezzo millennio gli Arruolati si sono dondolati in preghiera davanti ad uno dei più ributtanti manufatti goyish, pari solo, per oscenità, all’impuro maiale, e non, come scrive Dan Cohn-Sherbok, al «monumento più sacro per l’ebraismo […] considerato una vera e propria sinagoga a cielo aperto, dove recarsi a pregare e celebrare occasioni particolari».

 

Fonte: Gianantonio Valli, HOLOCAUSTICA RELIGIO,Psicosi ebraica, progetto mondialista

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