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Del resto, l'alluvione di capitali provenienti dagli Usa si era, nel 1933, già prosciugata completamente. La crisi del 1929 a Wall Street, il conseguente brutale arretramento dell'economia americana, il tracollo della produzione industriale, la riduzione a un rivolo dei commerci internazionali, segnò la fine della prima globalizzazione finanziaria. I dollari in giro per il mondo furono richiamati in patria. Non solo gli Stati Uniti, ma la Gran Bretagna - la potenza missionaria del vangelo del liberismo - adotta il protezionismo, e impone forti dazi sulle importazioni. Nello stesso tempo, rinuncia al suo ruolo di fornitore internazionale di capitali. Passato il tempo in cui le imprese estere erano incoraggiate a chiedere prestiti sul mercato finanziario di Londra; dal 1931, in forma non ufficiale, si mette in vigore un embargo sulle emissioni di titoli esteri in Inghilterra. Il mercato finanziario globale prima esaltato e promosso viene ridefinito fuga di capitali, osteggiato e punito.
L'Inghilterra si ritira dal mondo. Si ritira, a dire il vero, nel vasto confortevole mercato del suo impero coloniale. Grande importatrice di materie prime, la Gran Bretagna beneficia del crollo dei prezzi mondiali di queste; d'altra parte, fra le sue colonie vi sono alcuni dei massimi produttori planetari di oro, il cui potere d'acquisto si rinforza col calo dei prezzi mondiali (1). Londra gode dunque di due vantaggi: compra a poco con oro rivalutato.
La deflazione mondiale fa sì che in Inghilterra il costo della vita ribassi - fra il 1924 e il 1936 - di 16 punti, mentre i salari calano solo di 2 punti. E' una situazione felice rispetto al resto del mondo, tanto più che - con la deflazione - il governo britannico inaugura una politica di credito facile (bisogna pur usare gli abbondanti capitali rientrati, e che non possono andare all'estero), che stimola una sorta di ripresa, trainata dal mercato interno. E tuttavia la sua disoccupazione resta,ostinata, sopra il 10 per cento fino al 1939, quando la guerra innescherà il suo truce modello di pieno impiego.
Nella grande America, il New Deal di Roosevelt non otterrà - a parte il suo grande successo propagandistico - effetti migliori. Una severa politica di dirigismo, grandi opere pubbliche pagate con un crescente disavanzo dello Stato, l'aumento dei salari minimi, il sostegno dei prezzi agricoli, non riescono ad aver veramente ragione della crisi.
Nel 1936, il potere d'acquisto degli agricoltori americani è di un terzo inferiore a quello che avevano nel 1929: la disoccupazione generale, che era del 3 per cento prima del '29, resta attestata al 19 per cento fino al 1938. Fra ottobre 1937 e il marzo 1938 l'economia americana ricade in una severissima recessione, e altri 4,5 milioni di lavoratori si trovano sulla strada. "L'economia americana non ha ricominciato a riprendersi con le sue sole forze, essa resta dipendente dalle iniezioni costanti di potere d'acquisto alimentate dai deficit di bilancio", riconosce lo storico francese dell'economia Jacques Nèré (2): "alla vigilia della seconda guerra mondiale, il risanamento dell'economia statunitense resta incompleto e precario".
In Francia, il Fronte Popolare decreta un aumento generale dei salari del 10-15%, accorcia la settimana lavorativa da 48 a 40 ore, insomma applica le demagogie socialiste, senza restituire un alito di vita alla sua economia in stagnazione. La Russia sovietica applica fino in fondo, con la nota ferocia dottrinaria, l'economia di piano e collettivista, con i risultati disastrosi che sappiamo.
Tutti gli esperimenti dirigisti, insomma, in qualche modo falliscono. Salvo uno.
Quando Hitler sale al potere, la Germania soffre di una crisi industriale enorme, paragonabile a quella americana, con la relativa gigantesca disoccupazione. Ma a differenza degli Stati Uniti, per di più è gravata da debiti esteri schiaccianti. Non solo il debito politico, il peso delle riparazioni; anche il debito commerciale è pauroso. Le sue riserve monetarie sono ridotte quasi a zero. Inoltre, s'è prosciugato totalmente il flusso dei capitali esteri, che si presumevano necessari alla sua rinascita economica. La Germania insomma non ha denaro,ha perso i suoi mercati d'esportazione, è forzatamente isolata - dalla recessione mondiale - dal mercato globale. Costretta a un'economia a circuito chiuso, nei suoi angusti confini.
Ma proprio da lì, comincia a rinascere. Come? Secondo Rauschning, i nazionalsocialisti "si basavano sulle idee sempliciste del loro fuehrer, e s'erano creati una teoria monetaria che suonava pressappoco così: le banconote si possono moltiplicare e spendere a volontà,purché si mantengano costanti i prezzi".
Hitler lo diceva con esplicita brutalità: "dopo l'eliminazione degli speculatori e degli ebrei, si dispone di una sorta di moto perpetuo economico, di circuito chiuso il cui movimento non si arresta mai. Il solo motore necessario per questo meccanismo è la fiducia. Basta creare e mantenere questa fiducia, sia con la suggestione sia con la forza o con entrambe" (3)
Sono idee sempliciste. O anche assurde sul piano della teoria economica: creare inflazione (stampare carta moneta) senza far salire i prezzi - e senza ricorrere al razionamento dei consumi, alle tessere del pane, come stava facendo Stalin negli stessi anni.
Eppure funzionano.
A causa del suo grande indebitamento estero, la Germania non può svalutare la moneta: questa misura renderebbe più competitive le sue esportazioni, ma accrescerebbe il peso del debito. Fra le prime misure del Terzo Reich c'è dunque il riequilibrio del commercio, perché il deficit commerciale non può più essere finanziato come si fa in periodi normali. Di fatto, la libertà di scambio viene sostituita da Hitler da meccanismi inventivi. I creditori della Germania vengono pagati con marchi (stampati apposta, moneta di Stato) che però devono essere utilizzati solo per comprare in Germania merci tedesche. Ben presto, questo sistema sviluppò, quasi spontaneamente, accordi internazionali di scambio per baratto: la Germania non aveva più bisogno di valuta estera (dollari o sterline) per comprare le materie prime di cui necessitava, perché non vendeva né comprava più.
Per il grano argentino, dava in cambio i suoi (pregiati) prodotti industriali; per il petrolio dei Rockefeller, armoniche a bocca e orologi a cucù.
Prendere o lasciare, e le condizioni di gelo del mercato globale non consentivano ai Rockefeller di fare i difficili.
Per i pochi commerci con esborso di valuta, il Reich impose agli importatori tedeschi un'autorizzazione della Banca Centrale all'acquisto di divise estere; il tutto presto fu facilitato da accordi diretti con gli esportatori, che disponevano di quelle divise e le mettevano a disposizione. I negozi sui cambi avvenivano dunque, "dopo l'eliminazione degli speculatori e degli ebrei", senza che fosse necessario pagare il tributo ai banchieri internazionali.
Controllo statale dei cambi e del commercio estero sono praticati nello stesso periodo dall'Urss, con atroce durezza: ma con risultati miserandi. Il controllo nazista dei cambi e dei commerci esteri invece, deve ammettere lo storico, "dà alla politica economica tedesca una nuova libertà". Anzitutto, perché il valore interno del marco (il suo potere d'acquisto per i lavoratori) è stato svincolato dal suo prezzo esterno, quello sui mercati valutari anglo-americani.
Lo Stato tedesco può dunque praticare politiche inflazioniste, stampando la moneta di cui ha bisogno, senza essere immediatamente punito dai mercati mondiali dei cambi (governati da speculatori ed ebrei) con una perdita del valore del marco rispetto al dollaro. E il pubblico tedesco non riceve quel segnale di sfiducia mondiale consistente nella svalutazione del cambio della sua moneta nazionale.
Così, Hitler può stampare marchi nella misura che desidera per raggiungere il suo scopo primario: il riassorbimento della disoccupazione. Grandi lavori pubblici, autostrade e poi il riarmo, forniscono salari a un numero crescente di occupati. I risultati sono, dietro le fredde cifre, spettacolari per ampiezza e rapidità.
Nel gennaio 1933, quando Hitler sale al potere, i disoccupati sono 6 milioni e passa. A gennaio 1934, sono calati a 3,7 milioni. A giugno, sono ormai 2,5 milioni. Nel 1936 calano ancora, a 1,6 milioni. Nel 1938 non sono più di 400 mila.
E non sono le industrie d'armamento ad assorbire la manodopera. Fra il 1933 e il 1936, è l'edilizia ad impiegarne di più (più 209%), seguita dall'industria dell'automobile (+ 117%); la metallurgia ne occupa relativamente meno (+83%).
Nei fatti, la stampa di banconote viene evitata - o piuttosto dissimulata - con geniali tecnicismi. Di norma, nel sistema bancario speculativo, le banche creano denaro dal nulla aprendo dei fidi agli investitori; costoro, successivamente servendo il loro debito (e anzitutto pagando gli interessi alla banca), riempiono quel nulla di vera moneta - di cui la banca si trattiene il suo profitto (4), estraendo il suo tradizionale tributo dal lavoro umano. Ma naturalmente questo metodo genera inflazione, perché mette in circolazione moneta aggiuntiva; e Hitler vuole - deve - risparmiare al suo popolo, che ha già conosciuto l'esplosione inflattiva del 1922-23, un'altra disastrosa esperienza del genere.
Nel sistema hideriano, è direttamente la Banca Centrale di Stato (Reichsbank) a fornire agli industriali i capitali di cui hanno bisogno. Non lo fa aprendo a loro favore dei fidi; lo fa autorizzando gli imprenditori ad emettere delle cambiali garantite dallo Stato. E' con queste promesse di pagamento (dette' effetti MEFO ') che gli imprenditori pagano i fornitori.
In teoria, questi ultimi possono scontarle presso la Reichsbank ad ogni momento, e qui sta il rischio: se gli effetti MEFO venissero presentati all' incasso massicciamente e rapidamente, l'effetto finale sarebbe di nuovo un aumento esplosivo del circolante e dunque dell'inflazione.
Di fatto, però questo non avviene nel Terzo Reich. Anzi: gli industriali tedeschi si servono degli effetti MEFO come mezzo di pagamento fra loro, senza mai portarli all'incasso; risparmiando così fra l'altro (non piccolo vantaggio) l'aggio dello sconto. Insomma, gli effetti MEFO diventano una vera moneta, esclusivamente per uso delle imprese, a circolazione fiduciaria.
Gli economisti si sono chiesti come questo miracolo sia potuto avvenire, ed hanno sospettato pressioni dello Stato nazista, magari tramite la Gestapo, per mantenere il corso forzoso di questa semimoneta. Ma nessuna coercizione in realtà fu esercitata. Gli storici non hanno trovato, alla fine, altra risposta che quella che non vorrebbero dare: il sistema funzionava grazie alla fiducia. L'immensa fiducia che il regime riscuoteva presso i suoi cittadini, e le sue classi dirigenti.
Hanno detto che Hjalmar Schacht, il banchiere centrale del Reich, ebreo, che è l'inventore del sistema, ha reso invisibile l'inflazione: gli effetti MEFO erano un circolante parallelo che il grande
pubblico non vedeva e di cui forse nemmeno aveva conoscenza, e dunque privo di effetti psicologici.
In seguito Schacht (che fu processato a Norimberga ma, naturalmente, assolto) spiegò - fumosamented'aver pensato che, se la recessione manteneva inutilizzato lavoro, officine, materie prime, doveva esserci anche del capitale parimenti inutilizzato nelle casse delle imprese; i suoi effetti MEFO non avrebbero fatto che mobilitare quei fondi dormienti. Bisogna correggere la modestia del geniale banchiere. Erano proprio i fondi a mancare nelle casse, non l'energia, la voglia di lavorare, la capacità attiva del popolo.
Schacht fece molto di più. Da ebreo, conosceva bene la frode fondamentale su cui si basa il sistema del credito, e i lucri che consente l'abuso della fiducia dei risparmiatori e degli attivi, che col loro lavoro riempiono di vero denaro i conti di denaro vuoto, contabile, che la banca crea ex-nihilo. Per una volta nella storia, un ebreo fece funzionare la frode a vantaggio dello Stato - senza lucro - e del popolo. Non a caso, e senza nessuna intenzione sarcastica, Hitler gratificòSchacht del titolo di "ariano d'onore": mai definizione fu meglio meritata.
Un economista britannico, C.W. Guillebaud (5), ha espresso con altre parole lo stesso concetto: "nel Terzo Reich, all' origine, gli ordinativi dello Stato forniscono la domanda di lavoro, nel momento in cui la domanda effettiva è quasi paralizzata e il risparmio è inesistente; la Reichsbank fornisce i fondi necessari agli investimenti [con gli effetti MEFO, che sono pseudo-capitale]; l'investimento rimette al lavoro i disoccupati; il lavoro crea dei redditi, e poi dei risparmi, grazie ai quali il debito a breve termine precedentemente creato può essere finanziato [ci si possono pagare gli interessi] e in qualche misura rimborsato (6)".
Con il denaro creato dal nulla a beneficio del popolo, anziché degli speculatori, la Germania - mentre il mondo gela nella recessione profonda degli anni '30 - prospera. La massa dei salari, che ammontava a 32 miliardi di marchi nel 1932, è salita nel 1937 a 48,5 miliardi: parecchio di più della massa salariale del boom pre-1929 (42,4).
E qui gli economisti, i teorici del monetarismo e della mano invisibile del mercato, aspettano al varco l'esperimento hitleriano: quell'abbondanza di potere d'acquisto nelle tasche dei lavoratori provocherà una crescita esponenziale dei consumi, e dunque una pressione al rialzo dei prezzi. Si tenga conto che quel denaro è nelle mani di milioni di uomini e donne che sono stati disoccupati per anni, e per anni hanno vissuto nella privazione: la corsa agli acquisti di generi di consumo sarà dunque inarrestabile. Non ci sarà alcuna creazione di risparmi indicata da Guillebaud. L'inflazione sembra tanto più certa, in quanto nella Germania di Hitler, fra il 1932 e il 1937, la produzione di beni di consumo aumenta poco (+39%), specie in confronto all'enorme aumento di beni di produzione, macchinari, strade, fabbriche (+ 172%). Dunque il potere d'acquisto aggiuntivo si getterà a comprare beni relativamente scarsi, accentuando la spinta all'inflazione.
Ebbene: in Germania, l'inevitabile inflazione non si verifica.
L'indice del costo della vita, pari a 120,6 nel 1932, è nel 1937 a 125,1: in cinque anni l'inflazione sale di poco più che 4 punti.
Come mai? Alla ricerca del trucco, gli economisti si sono chinati sul prelievo fiscale. Certo lo Stato nazista avrà sottratto agli operai una parte notevole del loro nuovo potere d'acquisto con tributi gravosi. In realtà, nella Germania del 1937 la percentuale del prelievo fiscale sul reddito nazionale è pari al 27,6%, appena poco di più del 26% del 1933, quando Hitler prende il potere. Del nuovo reddito creato dalla prosperità indotta, il Reich non preleva che il 7,5%: un prelievo così mite non si
è visto mai, né prima né dopo, negli Stati più liberali. E di fatto, il rispannio dei privati in quegli anni, praticamente, si quintuplica: incoraggiato dallo Stato, ma non imposto coercitivamente.
I teorici devono dunque ricorrere a spiegazioni poco scientifiche: la naturale frugalità gennanica, la sua innata disciplina. Per evitare un altro tennine, che spiegherebbe di più: l'entusiasmo di un popolo spontaneamente mobilitato per la propria rinascita, liberato dal giogo dei lucri bancari, che ha capito perfettamente gli scopi dei suoi dirigenti, e vi collabora con energia e creatività.
Va detto che lo stesso Schacht non credeva nel sistema che aveva messo in moto col suo trucco contabile. Devoto allievo della dottrina classica, previde che il miracolo artificiale si sarebbe sgonfiato: raggiunto il pieno impiego, lo sfruttamento totale delle risorse, gli investimenti e le spese pubbliche devono rallentare, perché da quel momento esso genera solo pura inflazione. Così dettava l'economia classica: il serbatoio di manodopera è inelastico, e ogni nuovo investimento compete offrendo sempre più alti salari a una manodopera sempre più scarsa.
E' in base a questo dogma, notiamolo, che il liberismo supercapitalista raccomanda la globalizzazione, l'internazionalizzazione dell'economia: per attingere ai serbatoi di lavoro inutilizzato e a basso costo dei paesi non sviluppati.
Dal '36 in poi, fra l'altro, le materie prime sui mercati mondiali cominciano a rincarare, rendendo più difficile il gioco economico di Hitler. E' proprio in quel momento che Schacht propone di dedicare somme maggiori alle importazioni: e ciò non tanto per migliorare il tenore di vita dei tedeschi ma - incredibilmente - per "migliorare i nostri rapporti con l'estero" (7). Insomma: indebitiamoci un po' per far contenti gli usurai.
In quel momento invece Hitler incarica Goering, un Goering ancora giovane e attivo, di lanciare il grande piano di sostituzione delle materie prime: ciò che non si vuole importare deve essere rimpiazzato da surrogati (ersatze). Così nascono i processi di fabbricazione della gomma e benzina sintetica partendo dal carbone, brevetti che l'America - dopo la vittoria sul Reich - si affretterà a sequestrare e a distruggere.
Di fatto, in quegli anni la Germania funziona ancor più di prima a vaso chiuso. Come l'Unione Sovietica di Stalin riduce ulteriormente le sue importazioni. In Unione Sovietica l'autarchia è raggiunta al prezzo di carestie, atrocità poliziesche e concentrazionarie. I contemporanei, dunque, suppongono che i tedeschi, messi da Hitler a lavorare per produrre beni non consumabili, siano soggetti a severe privazioni, o almeno a un regime di austerità. Se non da schiavi di una stato totalitario, almeno da monaci guerrieri.
La realtà viene esposta da una tabella sui consumi annui' procapite ricavata dal già citato Guillebaud:
consumi tedeschi annui a testa

Anno 1932 / 1937

farina(Kg): 44,6 / 5,4
carne: 42,1 / 45,9
lardo: 8,5 / 8,1
burro: 7,5 / 8,9
margarina: 7,8 / 5,4
latte (litri): 105,0 / 111,0
pesce: 8,5 / 12,2
patate: 191,0 / 174,0
zucchero: 20,0 / 24,0
caffè: 1,6 / 2,1
birra: 51,4 / 62,9

La tabella rivela la stupefacente realtà: la qualità dell'alimentazione tedesca migliora durante la dittatura hitleriana. Il tedesco mangia meno margarina ma più burro; cala la dieta di patate (il cibo tedesco della povertà) e aumentano farina, carne, pesce. Persino il consumo di caffè, importato, è più abbondante. In Germania, l' autarchia funziona.
Gli studiosi del miracolo tedesco si consolano, retrospettivamente, con l'idea che una simile economia a ciclo chiuso non avrebbe potuto espandersi all'infinito. Che, se durò più del previsto, fu perché la Germania, con le annessioni del 1939 e '40, ebbe a disposizione nuove fonti di lavoro e materie prime. Forse.
Tuttavia, bisogna pur riconoscere che l'economia tedesca fu messa a regime di mobilitazione totale solo dal 1943. Solo allora la Germania spinse a fondo l'acceleratore. Albert Speer, il genio della mobilitazione economica bellica, racconta ( che nel 1943 - sotto gli incessanti, apocalittici bombardamenti - la Germania fu ancora capace di produrre 5234 locomotive, il doppio dell'anno precedente. Fra il , 41 e il '44 la produzione di munizioni triplicò, quella dei pezzi per mezzi corazzati fu quintuplicata, pur con un risparmio del 79% della manodopera e del 93% dell'acciaio impiegato (rispetto al 1941), grazie a una razionalizzazione scientifica dei processi produttivi.
E la mobilitazione della manodopera fu sempre ben lontana dalla militarizzazione attuata in Inghilterra, dove "tutte le forze del lavoro erano inquadrate in battaglioni, che venivano dislocati dove ce n'era bisogno. Tutta la popolazione civile inglese, comprese le donne, era una gigantesca armata mobile". In Inghilterra il 61 per cento delle donne era nel' 44 impiegato nello sforzo bellico; in Germania, il 45 per cento.
Quanto ai beni di consumo, fatta 100 la produzione del 1939,in Gran Bretagna era scesa nel 1942 a 79, in Germania era a 88. Ancora a metà della guerra, il tenore di vita tedesco restava più alto di quello dei suoi nemici.
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