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di Gabriele Adinolfi -

 

La Russia festeggia il sessantanovesimo anniversario della sua partecipazione da protagonista alla vittoria mondialista sull'Europa.

Putin ha scelto di farlo prima a Mosca e poi a Sebastopoli affermando che la “ferrea volontà del popolo sovietico ha salvato l’Europa dalla schiavitù”.

La quale schiavitù sarebbe, ovviamente, per Putin come per tutti idiscendenti della banda di gangster che prevalse allora, l'indipendenza rinnovata dei popoli europei, liberati dai lacciuoli giacobini, garantita da Berlino nel solco imperiale e sostanziata dalla socializzazione.

La salvezza da quella schiavitù poi la conosciamo sia qui che lì: centinaia di milioni di assassinati e un sistema di campi di concentramento controllato da sbirri, burocrati e commissari politici.

La celebrazione della sconfitta sulla barbarie italo-tedesca si aggiunge al varo di leggi liberticide che puniscono con la prigione chiunque abbia l'insana tentazione di rivalutare le idee del “male assoluto”.

Tutto ciò è di una coerenza cristallina.

In primo luogo corrisponde all'esaltazione patriottica tramite la quale il Cremlino conta di tenere mobilitate le masse per procedere in modo più indolore ai forti tagli economici e sociali che continua a procrastinare con estrema difficoltà ma che tutti i suoi potentati interni reclamano a gran voce e che non potranno essere aggirati in eterno.

Quindi è perfetto per mascherare il baratro del disastro economico in cui la Russia sprofonda e la ritirata strategica in atto e fornire invece un'impressione che consenta euforia.

Infine nella riproposizione degli schemi yaltiani, la nuova guerra fredda serve da cortina fumogena per nascondere la partita a tre (o a quattro se ci mettiamo dentro Londra) che Mosca sta giocando su Kiev e in cui la logica di spartizione con Washington sta prevalendo, ad oggi, su quella di ricucitura reclamata da Berlino.

Senza contare che nella guerra, parzialmente etnica ma soprattutto civile. in cui la ritirata interessata di Mosca e l'avanzata americana hanno precipitato l'Ucraìna, si sono riproposti paro paro gli schieramenti di un tempo.

Da parte ucraìna ci sono i camerati, nonché le famiglie e i discendenti di coloro che si opposero alla belva sovietica (che lì aveva sterminato sette milioni e mezzo di abitanti), dall'altra ci sono le strutture della vecchia burocrazia comunista, i nostalgici rossi e perfino i volontari internazionali, pare anche degli sharp italiani; mentre dalla parte nera (quella che qui da noi i cori degli indicibili continuano a screditare) ci sono camerati di ogni nazione, perfino russi.

Putin nemico/amico

Putin, quindi è un nemico?

Non lo so, né m'importa.

Quando ho sentito i deputati della Duma cantare Bella Ciao davanti a me non mi è ribollito il sangue. Essi hanno il diritto d'intonare il canto partigiano, non sono come i nostri; loro hanno difeso la loro terra pur stando nel campo sbagliato; i partigiani italioti la loro terra l'hanno offerta all'invasore; c'è non poca differenza.

Putin non potrà mai non essere antifascista né smettere di celebrare la vittoria sul Male Assoluto.

Poco male: basta saperlo e, sapendolo, si può continuare a impegnarsi per l'apertura ad est, per il riequilibrio, per un'intesa che, passando per Berlino e guardando a Mosca, ci permetta di uscire dall'impasse.

In questo bisogna insistere e guardare oltre; oltre quel precipizio in cui anche le scelte putiniane se non soprattutto le scelte putiniane, hanno precipitato l'Ucraìna e in cui si rischia di far naufragare tutto il nostro avvenire etno-culturale.

Bisogna perseverare. Bisogna continuare a considerare Putin e Mosca come un elemento indispensabile per la ricostituzione futura, specie ora che l'imperialismo americano è dominante come non mai, è in salute come mai lo è stato e cercherà d'intendersi con il colosso economico e demografico di Pechino.

Si deve continuare a guardare ad est con fiducia; per farlo si deve uscire dagli asili psichiatrici in cui ci siamo racchiusi perdendoci in ossessive e frenetiche masturbazioni mentali e assumere la nostra identità, la dignità della nostra storia e della nostra appartenenza, sì da farci rispettare.

Perché nessuno si allea con i lustrascarpe; sì invece con quelli che hanno tenuta alta la testa.

La Repubblica Sociale fu composta da uomini che, subito, si erano rifiutati di consegnare le armi ai tedeschi, che con i tedeschi si erano perfino scambiati colpi d'arma da fuoco o che andavano ad assaltare i treni che deportavano i militari italiani in prigionia.

A Vichy, il Maresciallo Pétain, l'uomo che rappresentò la Francia nell'Asse era colui che aveva sconfitto la Germania trent'anni prima e il suo luogotenente, Joseph Darnand, si era coperto di gloria in ambo le guerre contro l'invadente nuova potenza germanica.

L'Asse poi fu realizzato da uomini che, in Italia, trent'anni prima avevano combattuto tutti volontari contro i tedeschi.

E' la differenza tra gli uomini e gli sciuscià.

Pare che molti camerati di oggi questa frontiera non riescano proprio a coglierla e che il loro “partecipare” virtuale sia inteso solo come lustrare le scarpe a chi vorrebbero li comandasse e tesserne le lodi nel solo modo possibile: calunniando e delegittimando chi dimostra che la realtà non corrisponde al loro trip.Invece quella differenza tra uomini e sciuscià spiega tutto e lascia persino comprendere quanto non sia utopista sostenere che si debba essere con Pravy Sektor e con Putin, secondo una geometria che si può costruire realmente.

Con i camerati, perché quella è l'identità, e poi con un eventuale cooperatore differente, complementare nella sua diversità, nelle sue sfilate antifasciste e nelle sue Bella Ciao.

Si può. Se si è uomini.

Altrimenti non si può nulla.

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