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Uno scorcio di Corviale
Uno scorcio di Corviale

di Gianni Fraschetti -

Questa storia si svolge a cavallo degli anni 1975/1982, quando Roma venne governata, per la prima volta e in maniera continuativa dal PCI, con i suoi “Sindaci santi”, che finalmente poterono dispiegare e svelare al mondo l' eccezionale patrimonio culturale e umanistico del loro partito. Specialmente per quanto concerneva l’Architettura, la scienza o forse l’arte che concilia uomo e territorio in un equilibrio simbiotico. C'era molto da fare a Roma ma come al solito si cominciò da ciò che proprio non serviva, procurando ferite che sono ancora lì che sanguinano.

In quegli anni "favolosi" vennero costruiti quattro interi quartieri-dormitorio, divenuti poi il paradigma della desolazione e del degrado umano. Laurentino 38, Corviale, Vigne Nuove e Pineto. Pur essendo stati progettati da quattro diversi team di architetti, tutti rigorosamente di fede comunista, il concetto ispiratore e le linee fondanti e caratterizzanti i quattro progetti sono le stesse, così come la filosofia politica di fondo che ha attraversato tre diversi sindaci (Argan-Petroselli-Vetere) nell’allestimento di questi “paradisi dei lavoratori”.

In questa sede, per motivi di spazio, analizzeremo solo il Laurentino 38, che contiene in sé tutti gli elementi caratteristici e peculiari delle periferie romane di nuova formazione e dei quartieri dormitorio di tutte le grandi città europee dove la sinistra è riuscita a mettere le mani e a realizzare qualcosa. Per la gioia di chi poi c'è andato a vivere.

Laurentino 38 (38 è il numero di mappa catastale rimasto poi appiccicato al nome del quartiere e ne ha sempre fornito un immaginario da distopia cyberpunk) è posizionato nel quadrante sud-sud ovest di Roma, a sud dell'EUR, a ridosso del Grande Raccordo Anulare ed è delimitato dalla Via Pontina/Cristoforo Colombo che in quel tratto si congiungono, Via dell'Acqua Acetosa Ostiense, Via Laurentina e dal Parco di Via Campanile/Via Govoni.

E' un quartiere, a differenza di molti altri, esattamente delimitato, ossia se ne possono definire precisamente i confini, anche perché per le caratteristiche intrinseche del progetto e le sovrastanti scelte politiche, il quartiere ha scontato negli anni un fortissimo isolamento ed emarginazione e solo negli ultimi anni sono state aperte nuove vie di accesso e si è cercato di abbattere qualche barriera “di difesa” naturale delle zone borghesi, ad esempio un parco che ora collega il settimo ponte alla vicina zona della Ferratella è stato aperto solo nel 2007, prima c'era un terrapieno e dei rovi ad impedire che ci fosse possibilità di passaggio. Sull'unico lato (nord-ovest), dove non c'è aperta campagna, il confine è segnato da una cittadella militare (Cecchignola) o da strade a scorrimento veloce. Per molti anni comunque il Laurentino 38 è stato un quartiere dal quale si entrava e si usciva da due sole strade che davano entrambe sulla via Laurentina, non di rado presidiate da robusti posti di blocco, e questa condizione dava più l'idea di vivere a Belfast o a Gaza che di essere un quartiere di Roma come gli altri.

Il Laurentino 38 e i suoi fratelli Corviale, Vigne Nuove e Pineto sono figli di un’architettura ispirata al brutalismo, anzi, sono probabilmente i luoghi ove il brutalismo ha dato il peggio di sé, e rappresentano il non plus-ultra dell'immaginario dell'alienazione metropolitana. Il Brutalismo impiega molto spesso la rudezza del "cemento a vista" (in francese beton brut) le cui forme plastiche lavorate e plasmate nei particolari come nei pilotis o nei camini dell'"Unités d'Habitation" di Marsiglia di Le Courbusier, evidenziano con forza espressiva la struttura. Ma qui non avevamo a che fare con Le Corbusier o con Mies van der Rohe , purtroppo

Dopo poco tempo dall’insediamento gli abitanti del Laurentino 38, di Corviale e delle altre sublimi realizzazioni di quel periodo, realizzarono che l’amministrazione pubblica si disinteressava di loro e del quartiere, e a seconda delle diverse zone e vie iniziarono a svilupparsi diverse esperienze di vita quotidiana che potremmo definire di “vita senza lo stato”.

In effetti questi quartieri abbandonati a se stessi, da una parte scontano grossi disagi e dall’altra offrono, grazie anche alle loro cubature inutilizzate, grandi spazi all’insediamento di ogni tipo di organizzazioni. Da quelle criminali (Le Vele di Scampia ne sono tragico esempio) a quelle sociali o sedicenti tali. Insomma, c’è di tutto. Meno che la presenza dello Stato. E gli abitanti si sono trovati a dover subire atteggiamenti criminali e intimidatori da parte di veri e propri clan.

Ci si è dovuti confrontare, e questo tutt'oggi, con il teppismo autolesionista, con la desolidarizzazione e la microcriminalità generata dal gran numero di tossicodipendenti e con l'indifferenza, il qualunquismo e l'opportunismo tipico del sottoproletariato. Nella zona cosiddetta "delle cooperative" le case sono state appunto costruite da cooperative, i cui soci erano e sono lavoratori delle poste, delle ferrovie, dell'azienda di trasporti e altri del terziario aderenti ai partiti e ai sindacati di sinistra.

La maggior parte degli abitanti di queste zone è quindi originariamente formata da aderenti agli ex Partito Comunista e Partito Socialista, che hanno avuto la drammatica prova provata di come funzionasse il paradiso sociale che andavano predicando, in quartieri che anche esteticamente non differivano in nulla dalle nuove costruzioni di Berlino Est e di tutte le città dell’Europa socialista. In Italia avevano in più l'assoluta latitanza di ogni struttura statuale.

In questa situazione urbanistica e sociale, scellerata e totalmente fuori controllo, i nuovi quartieri dovettero affrontare lunghi periodi di precarietà e di disordini, segnati da occupazioni abusive, da furti e aggressioni, da violenze esercitate dagli occupanti irregolari nei confronti degli utenti legittimi. E infine, per ultimo, la ciliegina sulla torta rappresentata dalla calata di rom e clandestini in contesti sociali totalmente sfibrati e posti ben oltre il limite di sopportazione.

Ma le pubbliche amministrazioni, locali e centrali. hanno continuato a occuparsi d’altro, considerando il Laurentino 38 e gli altri “alveari umani”, concepiti e realizzati dalla loro demagogica follia, ormai solo delle grane da non mostrare, da utilizzare come bidoni della spazzatura per infilarci ogni tipo di "diverso" e dei quali, se possibile, liberarsi in uno scaricabarile vergognoso.

Casa popolare non è sinonimo di bruttura e soprattutto non può essere un luogo di espiazione. Si possono costruire "belle" case popolari e in Italia lo abbiamo anche fatto. Andatevi a vedere a tale proposito quelle che costruiva il Sig. "Male Assoluto", il Cavalier Benito Mussolini. La Garbatella fascista resta un esempio di architettura popolare, solare e vivibile, ma evidentemente inarrivabile per certe teste. Non ci volevano degli scienziati per comprendere che se avessimo stivato migliaia di persone dentro delle scatole da scarpe, brutte, anonime, senza servizi, senza trasporti, senza legalità, non poteva nascere nulla di buono. E poi ci stupiamo se esplodono?

L'ideologia della sinistra collettivista. L'ossessione totalitaria di creare ghetti pulviscolari cui destinare sacche di popolazione da indottrinare, eventualmente, dopo. Non a caso Tor Sapienza è un quartiere di tradizione comunista, uno dei posti chiave della mobilitazione di sinistra. Il mito architettonico della città ideale si è incarnato in palazzoni e colate di cemento. Luoghi dove la gente vive come se si trovasse infilata in scaffali

Pietrangelo Buttafuoco

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