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- di Gianni Fraschetti -


In pochi anni la Libia, da stato ordinato, ricco e strategico per gli interessi italiani, è divenuta una mera espressione geografica.

Lo stato nazionale libico non c'è più, dissolto dalla dissennata azione avviata dalla Francia, sbriciolato dagli interessi particolari di un cocainomane seduto in quel momento all'Eliseo, sminuzzato dall'integralismo religioso e dal tribalismo che hanno prevalso sul sentimento nazionale dei libici, frantumato e ricondotto alle tre grandi entità geopolitiche preesistenti (Fezzan-Tripolitania-Cirenaica) che solo gli italiani prima e Gheddafi poi erano riusciti a comporre in un'unica entità organica.

La Libia non c'è più. E nemmeno un interlocutore affidabile. Prima ne prenderemo atto, prima potremmo (il condizionale è d'obbligo vista la qualità dei nostri governanti) adottare quelle contromisure che paiono ormai indifferibili. L'operazione franco-britannica "Odissey Dawn", una tragica riedizione in sedicesimo dell'avventura neocoloniale di Suez del 1956, con la non trascurabile differenza che è avvenuta totalmente sul culo nostro, è naufragata in un mare di sangue, con le ambasciate dei due paesi promotori di questa assurda iniziativa frettolosamente chiuse e i loro cittadini colà residenti evacuati con navi militari arrivate alla chetichella, quasi di nascosto. Quanto agli USA ci hanno lasciato un ambasciatore a Tripoli. Morto.

E noi? E noi, come al solito, siamo indecisi a tutto. Sommersi da ondate di clandestini che da lì partono, con i vitali rifornimenti di gas e greggio pesantemente compromessi e con la prospettiva di avere una nuova Somalia a poche decine di miglia dalle nostre coste, con tutto ciò che ne consegue: califfati, emirati, corti islamiche, bande di pirati, terroristi, integralisti, trafficanti di droga, di carne umana, di organi, di armi, di rifiuti tossici e chi più ne ha, ne metta, siamo paralizzati dal terrore. Oscilliamo tra la furia interventista e la prudenza più stagnante, stretti tra la consapevolezza di quanto importante sia per noi la Libia e la nostra congenita vigliaccheria.

Eppure la Libia era una nostra colonia, nostri sono i maggiori interessi in ballo, e contrariamente da quanto si sente affermare da politici di quarta scelta e giornalisti analfabeti, la ex potenza coloniale è tradizionalmente il tutor in situazioni come queste. I francesi tutti i giorni intervengono in Africa francofona, noi stessi siamo andati e siamo tutt'ora in Somalia e non si vede perché la Libia dovrebbe fare eccezione. Ma laggiù ci sarebbe da menare parecchio le mani e a Roma si fanno orecchie da mercante sull'argomento. In questo rigido Febbraio, nulla terrorizza più Renzi e le sue girls che uscire dalle rassicuranti e quotidiane liturgie autocelebrative per montare una operazione militare dai difficili risvolti e dall'esito incerto. Eppure qualcosa dovremo pur fare, ne va del nostro futuro. Sia immediato che in prospettiva.

Anche Napolitano se n'è accorto, al punto di regalarci nel suo primo intervento da Senatore a vita uno dei suoi sermoni sull'argomento, mentre da Presidente, in occasione della passata Festa delle Forze Armate del 4 Novembre, le aveva platealmente esortate a prepararsi a combattere, informando gli italiani che la situazione è assai seria. Insomma, più chiaro di così non si potrebbe e dunque Pittibimbo, volente o nolente, non potrà continuare a fare lo gnorri ancora per molto. Non ci sono infatti molte scelte: intervenire o prepararci a una bolletta energetica insostenibile e a una bella conversione volontaria all'Islam, aspetto sul quale, immaginiamo, non ci sarebbero grandi problemi visto che i giri di valzer sono un genere di operazioni nei quale siamo storicamente maestri.

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