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di Alberto Negri, Il Sole 24 Ore*

 Ci sono molte cose che non tornano nella caccia a jihadisti e foreign fighter, e che dovrebbero farci riflettere. Non si muore a caso nei conflitti mediorientali entrati da alcuni anni in Europa. Il premier britannico Theresa May è decisamente più realista di Bush junior, Obama e anche di Trump. 

Dopo l’11 settembre 2001, pur di proteggere i legami con i sauditi e la famiglia Bin Laden, Bush dichiarò che il terrorismo non ha niente a che fare con l’Islam e Obama al Cairo nel 2009 affermò che si trattava di una «deviazione». Trump in campagna elettorale ha detto chiaramente nelle interviste che «l’Islam ci odia», fino a quando i generali Mattis e MacMaster lo hanno preso da parte e gli hanno fatto capire che metteva in pericolo gli affari con Riad. I sauditi con il monarca Ibn Saud strinsero un accordo nel 1945 con Roosevelt - petrolio contro sicurezza - che non si è mai incrinato.

Non solo. Trump, sempre più vulnerabile, si è spinto più in là e dopo avere dichiarato che bisogna combattere l’Isis si è concentrato sul pericolo Iran, che con questi attentati non ha niente a che fare. È l’ideologia wahabita saudita che ha ispirato al-Qaida e l’Isis. Il vero obiettivo Usa è mettere insieme una coalizione araba, con americani, inglesi, giordani, in accordo con Israele, per penetrare in Siria e tagliare le linee di rifornimento iraniane dirette a Damasco e agli Hezbollah libanesi. Questa è la vera guerra in preparazione che verrà mascherata da conflitto all’Isis.

Dopo l’attentato del lupo solitario Khalid Masood al Parlamento britannico, in cui vennero uccise quattro persone prima che il terrorista fosse abbattuto, l’intelligence inglese aveva rivelato che oltre 400 cittadini britannici, andati a combattere a fianco dell’Isis in Siria e Iraq, erano tornati in patria. 

Questo faceva già temere che in Gran Bretagna si era raggiunta la massa critica di terroristi “islamisti” - come aveva tenuto a sottolineare il premier Theresa May, pur non usando l’aggettivo islamico - pronti a colpire con attacchi più simili a quelli del 30 novembre 2015 a Parigi e del 22 marzo 2016 a Bruxelles. 

I servizi dunque si aspettavano non azioni di singoli lupi solitari ma attacchi coordinati di cellule jihadiste. Qualche giorno dopo l’attentato di Londra, un altro rapporto dei servizi inglesi affermava che dei 700 foreign fighter segnalati dalle autorità, 320 avevano già fatto ritorno nel Regno Unito. 

Fallito il progetto territoriale del Califfato era abbastanza logico che ci fossero dei ritorni, anche se non è per niente automatico che il travaso dei foreign fighter avvenga in Europa: molti jihadisti potrebbero decidere di andare combattere in altre parti del Medio Oriente come lo Yemen o la Libia. In Yemen i sauditi sono in difficoltà contro ribelli Houthi appoggiati da Teheran e forse farebbe comodo a Riad usarli come già impiegano gli uomini di al-Qaida. Del resto da settimane americani, esercito iracheno e milizie sciite sono a 300 metri della moschea di Mosul dove al-Baghdadi nel 2014 proclamò il Califfato. Perché si aspetta a scatenare l’offensiva? Il motivo potrebbe essere che il teatro siriano è diventato una scacchiera e i jihadisti avranno una sorte diversa da quella che ci aspettiamo.

La rivendicazione lascia pochi dubbi sulla pista jihadista. Ma proprio il fatto che non sia arrivata subito potrebbe significare che si tratta di un attentato organizzato e che la cellula che lo ha realizzato intenda proteggere la propria rete logistica. Gli arresti e le perquisizioni a Manchester sembrano avvalorare l’ipotesi di un kamikaze che abbia utilizzato uno Ied, gli Improvised explosive device, che abbiamo visto esplodere a centinaia in Iraq e Afghanistan.

L’attentato dimostra anche la vacuità dei proclami anti-terrorismo fatti in Arabia Saudita da parte di Trump e della leadership saudita che con gli israeliani hanno come obiettivo soprattutto il contenimento dell’Iran sciita più che l’eliminazione di un jihadismo sunnita che si alimenta proprio dell’ideologia islamica radicale e retrograda sostenuta da Riad. Una situazione che gli Stati Uniti, gli inglesi e i francesi conoscono perfettamente, ma fanno finta di ignorare in nome della Realpolitik e dei grandi affari.

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