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Caput Mundi...in regalo le prime 27 pagine

Mercoledì 12 Agosto 2022 – Da qualche parte nel Mar Mediterraneo

Uscì dalla doccia e si avvicinò al lavabo per radersi. Lo specchio rimandò l’immagine di un volto giovane e abbronzato, dai tratti simmetrici e regolari, dominato da due profondi e magnetici occhi grigi, duri e ironici a un tempo. Incrociò per un attimo il suo sguardo riflesso e le labbra si schiusero in un accenno di sorriso che lasciò intravedere una chiostra di denti candidi, poi si frizionò i capelli neri tagliati cortissimi e il corpo asciutto e atletico segnato da diverse cicatrici. Era alto circa un metro e ottantacinque ma i suoi movimenti erano fluidi e i gesti essenziali, eleganti e pieni di fascino naturale come quelli di un grosso felino. Si avvolse l’asciugamano intorno ai fianchi stretti e riportò lo sguardo sullo specchio per il rito della rasatura. L'affilatissima lama del rasoio Wacker brillò sotto la luce di un faretto, mentre con mano ferma la passava rapida sul viso. Terminò in pochi attimi, lavò via la schiuma residua e passò una mano sulla pelle per controllare il risultato poi, soddisfatto, iniziò a vestirsi. Aveva appena terminato quando bussarono alla porta della sua cabina.

“Avanti, è aperta”, disse. La sua voce aveva un timbro basso e ben modulato, senza traccia di inflessioni dialettali e il tono rivelava una consolidata consuetudine con il comando. Entrò un marinaio con il vassoio della prima colazione. “Buongiorno signore, sono le zero-quattro-zero-zero. Dove vuole che lo poggi?”.

Lupo di Monteforte prese il bricco del caffè e la spremuta d’arancia e li poggiò sul tavolo della sua cabina. "Portati via il resto. Puoi andare, grazie”.

Mentre il marinaio richiudeva la porta, si versò il caffè e ne ingollò un sorso. Le labbra si arricciarono in una smorfia di fastidio e appoggiò la tazza sul tavolo con un gesto irritato. Inutile illudersi. La solita schifezza, pensò, sembrava impossibile che fosse sempre tanto cattivo. Che lo facessero apposta? Sorrise, immaginando l'umore dei cuochi di turno alle quattro del mattino. Bevve un sorso di spremuta per togliersi dalla bocca quel sapore terribile di bruciato e cercò inutilmente le sigarette nelle tasche. Frugò con lo sguardo nel disordine della cabina finchè le vide. Il pacchetto giallo di Gauloises, con impresso il motto "Liberté Toujours", era sul comodino insieme al vecchio Zippo commemorativo del suo corso d’accademia. Ne prese una e l’accese. Mentre aspirava una lunga boccata si disse che avrebbe dovuto smettere. Se lo ripeteva a ogni prima sigaretta della giornata, quella che faceva più male ma anche la più buona. Sorrise divertito a quel pensiero, poi si mise sigarette e accendino in tasca, prese una giacca a vento poggiata sulla sedia e uscì dalla cabina.

Per Lupo Manfredi di Monteforte, il più giovane generale a quattro stelle dell’esercito italiano, anzi, il più giovane generale che l’esercito avesse mai avuto in assoluto, la giornata si preannunciava lunga. Particolarmente, lunga. Nato trentaquattro anni prima, era il secondo dei tre figli di una famiglia aristocratica che affondava le sue origini nel Medioevo e che poteva vantare nell'albero genealogico un paio di papi, svariati principi e un numero imprecisato di capitani di ventura, diversi dei quali avevano terminato la carriera sotto la scure del boia. Dopo una maturità classica conseguita senza infamia e senza lode, aveva lasciato di stucco familiari e amici con l’annuncio, totalmente inaspettato, di avere fatto domanda di ammissione all’accademia militare di Modena. Una scelta di vita decisamente radicale e molto impegnativa da parte di un ragazzo che viveva nella più completa agiatezza e aveva davanti a sé tante opportunità. In effetti, in quella circostanza, Lupo aveva sorpreso anche se stesso, ma aveva agito d’impulso. Qualcosa era scattato nella sua mente, qualcosa di istintivo e indefinito. Colpa dei suoi avi capitani di ventura? Di tanti scavezzacollo che avevano preferito il mestiere delle armi a una vita di agi e di lusso e avevano lasciato nel suo sangue il gusto per l'avventura? Possibile, ma non si era nemmeno posto il problema. Prima ancora di riflettere bene, aveva compilato e inviato la domanda. Superare brillantemente il concorso classificandosi tra i primi, era stato un lampo, con estrema sorpresa del padre, un affermato cardiochirurgo con l’hobby dell’enologia, che fino ad allora non aveva perduto occasione per dirgli, sorridendo e scuotendo il capo. “Ma dove pensi di andare? E’ un esame di ammissione durissimo. Posto che ce la facessi, non sei proprio tagliato per sopportare quel tipo di regole”. Suo padre quella volta si era sbagliato, mentre l’istinto di Lupo aveva visto giusto.

Il cambiamento totale di vita e di abitudini, e lo stimolo costante di un ambiente competitivo e rigorosamente selettivo, avevano fatto emergere quanto di meglio vi era nel suo carattere. Da quel momento era iniziata un’avventura straordinaria che lo aveva portato giovanissimo a occupare posizioni cui solitamente si perviene nella parte finale della carriera. Accademia militare, Scuola di applicazione d’arma, Scuola di fanteria, Scuola militare di paracadutismo, Corso combattimento avanzato per Forze Speciali, Scuola ranger e National Defense University negli USA, che aveva frequentato subito dopo la promozione a generale di brigata. Laureato in Scienze strategiche e in Scienze etnoantropologiche, Lupo parlava correntemente cinque lingue e diversi dialetti tribali. Dopo il primo anno di servizio nella brigata paracadutisti, era stato ammesso a frequentare il corso incursori, entrando a far parte del 9° reggimento d’assalto, o come veniva più comunemente chiamato, il Nono, del quale aveva successivamente assunto il comando, a ventinove anni. Alla testa dei suoi incursori Monteforte aveva condotto decine di operazioni coperte in tutti i teatri di conflitto, anche quelli che non saranno mai conosciuti come tali dall’opinione pubblica. A trent’anni anni era stato promosso generale di brigata per meriti di guerra e posto alla guida della Folgore e a trentatrè della neocostituita divisione. I suoi parà lo idolatravano, felici di avere come comandante questo generale così giovane e così soldato, nella pienezza guerriera del termine. Stranamente non risultava troppo indigesto nemmeno alle alte sfere militari, ben felici di avere trovato chi toglieva loro le castagne dal fuoco. Lupo di Monteforte amava l’azione e molto meno le frequentazioni e gli intrighi romani. Uno stile di vita che era molto ben visto ai piani alti del ministero della difesa. Le infinite guerre del mondo globalizzato erano state le levatrici della sua carriera. Una spirale di conflittualità che avvolgeva gran parte del mondo e nella quale le forze armate erano state frettolosamente scaraventate senza un obiettivo strategico chiaro. Strutturate e addestrate per fare altro, si erano invece trovate a confrontarsi con il Mout, l’esoterico acronimo che indicava campi di battaglia da incubo: strade, fogne, distese di fabbricati anonimi e ostili. L’estrema periferia del mondo, il mare della miseria urbana, dove qualcuno ti aspetta acquattato nel fango con un pugnale affilato tra le mani. Nella fornace della guerra rivoluzionaria che annulla ogni distinzione tra combattente e politico, iniziò a prendere forma un tipo di militare nuovo che realizzò la profonda iniquità di quanto stava facendo, di quello scontro tra paesi ricchi di tutto e poveri diavoli che non avevano niente. Giorno dopo giorno si fece strada nell’animo del soldato la lacerante sensazione di non essere altro che l’apripista degli avvoltoi della ricostruzione, l’avanguardia e il braccio armato della speculazione, dello sfruttamento e dell’avidità. I morti si sommavano ai morti, ma era un fatto assolutamente privato, che riguardava le famiglie e gli amici, e non intaccava minimamente l’indifferenza generale verso i reali motivi di quei conflitti e verso i caduti stessi.

Lupo fu tra i primi a comprendere tutto questo, fino a rendersi conto di avere perso, giorno dopo giorno, tutte le certezze del buon soldato. Cosa avrebbero mai potuto offrire a quelle povere popolazioni? A voler essere superficiali, la civiltà del telefonino, della televisione con mille canali e del computer. A pensarci bene e in maniera più impietosa, interessi e appetiti inconfessabili per difendere i quali dispensavano carne in scatola e pallottole, latte condensato e napalm.

Lupo di Monteforte uscì dalla cabina e avanzò lungo uno stretto corridoio, fino a raggiungere l’ascensore che lo avrebbe condotto sul ponte plancia della portaerei Italia.

Spinse il bottone di chiamata e mentre attendeva guardò l’orologio. Erano le 4.07 del 12 Agosto 2022.

Giovedì 19 Agosto 2021 – Aeroporto di Ciampino - Roma -

Il Falcon 900 del 31° stormo proveniente da Al Bateen, negli Emirati Arabi Uniti, toccò la pista dell’aeroporto di Ciampino, a Roma, alle 6.00 di una mattinata che si preannunciava caldissima. Rullò lentamente verso il suo parcheggio nell’area militare e si arrestò.

Monteforte lanciò un’occhiata dal finestrino e vide che una Maserati Quattroporte era già in attesa. L’aereo non era ancora fermo ma Lupo si alzò in piedi per sgranchirsi le gambe intorpidite dal lungo volo. Era partito il giorno prima da Herat, in Afghanistan, a bordo di un Hercules C130J dell’AMI[1] diretto ad Al Bateen, dove lo attendeva il Falcon che era immediatamente decollato per raggiungere Roma.

Il giovane generale era proprio curioso di conoscere il motivo di quella urgente convocazione mentre erano in corso violenti combattimenti in quasi tutta l’area assegnata al contingente italiano. Quella maledetta guerra sembrava non avere fine e l’idea di un ritiro totale delle truppe entro il 2014 era stata accantonata a mano a mano che le fiamme della rivolta avevano iniziato a divorare tutto il continente africano. La Libia era completamente in mano a bande di predoni e di estremisti religiosi, la Tunisia e l’Algeria erano scosse da sanguinosi fremiti integralisti, Siria e Irak erano da anni un mattatoio e l’intera penisola arabica era una polveriera pronta ad esplodere.

Tutta quella vasta porzione di mondo, dal Maghreb all’Egitto e dalle due sponde del mar Rosso fino agli emirati del Golfo Persico, pareva ormai destinata a divenire un’unica, grande repubblica islamica. La politica di destabilizzazione portata avanti dalle teste d’uovo della Casa Bianca aveva trasformato l’intero bacino mediterraneo in un mare molto pericoloso, abbattendo gli stati laici di nordafrica e medioriente, sostituiti dal caos allo stato puro, e favorendo addirittura la nascita di stati musulmani in Europa, nel cuore di un contesto instabile come quello balcanico. Ovunque si guardava sembrava che fosse in corso un allucinante viaggio a ritroso nel tempo che cancellava le carte geografiche riportandole all’epoca della Sublime Porta.

Un vero capolavoro d’ingegno a stelle e strisce, con l’Europa a far da vittima silenziosa, per l’ennesima volta. Era dalla crisi di Suez del 1956 che il vecchio continente veniva regolarmente relegato ai margini dei giochi che contavano. In quell’anno, inglesi e francesi, dopo un iniziale tentativo di assumere un ruolo da protagonisti, si calarono le brache di fronte al ringhiare di russi e americani e si ritirarono con la coda tra le gambe, certificando così, senza appello, gli effetti di Yalta, la fine degli imperi coloniali e il loro status di nullità nel nuovo ordine mondiale che si stava imponendo. Da quel momento ogni visione politica e strategica di lungo periodo venne abbandonata a vantaggio dell’immediato tornaconto economico e dello sfruttamento totale di tutte le risorse disponibili in ogni angolo della terra. Erano state gettate le basi e creati i presupposti per ottenere un disastro, cosa che puntualmente avvenne.

Lupo di Monteforte sbuffò. Aver lasciato il comando dei suoi uomini impegnati in combattimento gli seccava non poco, ma la convocazione proveniva direttamente dal presidente del consiglio dei ministri e non poteva certo ignorarla. Mentre rimuginava, il portello dell’aereo venne aperto. Un generale di brigata lo attendeva fuori dall’auto. Una cordellina argentata gli pendeva dalla spalla destra e se ne stava appoggiato col bacino allo sportello anteriore destro della Maserati con con le braccia conserte e un aria vagamente annoiata. Appena lo vide uscire dal velivolo, parve risvegliarsi di colpo e si avviò verso di lui mentre un largo sorriso gli illuminava il volto.

“Ecco il nostro guerriero”.

Monteforte strinse energicamente la mano che l’ altro gli porgeva e lo abbracciò, felice di avere ritrovato un vecchio amico.

“E tu che ci fai qui?”

Lupo conosceva benissimo l’ufficiale che aveva di fronte. Erano amici da sempre, anche se ultimamente non avevano avuto molte occasioni per frequentarsi. Filippo Magri era un bel tipo, un pezzo di marcantonio alto, biondo, di grande presenza fisica e dal carattere estroverso ma non era solo una bella statuina. Era infatti dotato di intelligenza acuta e vivace, di notevoli doti organizzative e una straordinaria capacità di analisi e sintesi che Monteforte aveva sempre apprezzato.

“Sono qui per te, Lupetto bello. Attualmente sono il consigliere militare del presidente del consiglio. Ha mandato me a prenderti, sapendo che siamo amici”.

Lupo lo squadrò da capo a piedi. “Consigliere militare del presidente”, ribadì, facendogli il verso. "Caspita Filippo, come suona bene! Lo dicevo io, appena ho visto la cordellina e soprattutto i chili che hai messo su, che dovevi essere diventato uno importante. Meglio, così potrai spiegarmi perché sono qui. Non so perché, ma ho la balzana idea che sia una delle solite minchiate nelle quali siete specializzati qui a Roma. Sai, non mi è piaciuto affatto lasciare il comando in un momento cosi delicato”.

Magri fece una smorfia e si strinse nelle spalle. “Guarda Lupo io non so niente, ma ti posso assicurare che il presidente non è una che fa le cose alla leggera ed era perfettamente al corrente dell’attuale situazione sul campo”.

Monteforte borbottò uno “speriamo” a denti stretti mentre saliva nell’auto che immediatamente si mise in moto.

“Com’è andato il volo?”, gli chiese Magri.

“Abbiamo fatto tutta una tirata, nemmeno dieci minuti di sosta ad Al Bateen, solo il cambio di aereo. Allora, qual è il programma?”.

“Il presidente ti aspetta alle otto a Palazzo Chigi. Speriamo di arrivare con sufficiente anticipo. La foresteria è a tua dispozione così potrai rinfrescarti e cambiarti”.

Monteforte guardò la sua uniforme da campo spiegazzata e impolverata e ghignò. “Quante storie, se fosse un uomo scommetti che non ci avresti fatto caso? Comunque, visto che non ho cambio, temo che la signora dovrà accontentarsi di quello che indosso”.

Magri sorrise. “Hai ragione, sai? Probabilmente...se fosse un uomo. Ma è una donna, e in ogni caso, non ti preoccupare, abbiamo già provveduto noi”.

"Perfetto. Allora arriverò dal presidente come si conviene a un bravo ufficiale. Lavato, stirato e profumato”, ghignò Lupo, poi tacque per qualche istante, rimuginando, prima di concludere. “Filippo, dì un pò, sbaglio o ti vedo bello preso dalla tua datrice di lavoro? L’ultima volta l’ho vista un paio d’anni fa, e se ricordo bene non era affatto da buttare via. Anzi”.

"Ma certo che sono preso, caro mio. Come tutti, del resto, in Italia. Tutti pazzi per Veronica, non lo sapevi?”, fu lesto a rispondere Magri.

Poi cambiarono discorso e poco dopo arrivarono a destinazione.

Giovedì 19 Agosto 2021 – Palazzo Chigi – Roma –

Monteforte scoprì che l'amico non aveva mentito: l'uniforme, di sartoria e dal taglio impeccabile, era appesa nel guardaroba, perfettamente stirata. Aprì i cassetti e vide che c’era tutto il corredo: camicie, cravatte, cinture di cuoio e di canapa, biancheria e scarpe.

Monteforte considerò che quell'accoglienza, dopo mesi di baracche polverose, sabbia, fango, cimici e scorpioni non era poi così male. Quasi quasi, ci si sarebbe anche potuto abituare. Magri, che lo attendeva in un elegante salotto adiacente la camera da letto, gli gridò. “Allora l’hai vista?”

“Sì, grazie per la premura”.

“Ma come, non dici niente?”

“E cosa ti dovrei dire”, replicò Monteforte, entrando nel box doccia e aprendo il rubinetto dell'acqua fredda al massimo per levarsi un pò di stanchezza da dosso. Lo scroscio gelato lo fece saltellare.

“Non hai notato nulla?", domandò Filippo che era comparso sulla porta del bagno con un bicchiere di acqua tonica in mano.

“Che sei un alcolizzato? Sono le sette del mattino e inizi già a bere. Fai un po’ tu”.

Filippo ridacchiò. “E' acqua tonica, caro il mio inquisitore. Sono innocente, almeno per le ultime sette ore. Ieri notte invece, temo di avere trasgredito. Confesso. Abbiamo una delegazione lituana in visita. Diamine Lupo, hanno al seguito cinque interpreti da mal di testa. Una di loro ha due gambe lunghe che se non le vedi non ci credi”.

"E piantala di fare 'sti discorsi! Dopo sei mesi di Afghanistan le uniche gambe che mi vengono in mente sono quelle dei miei uomini quando fanno ginnastica al mattino", gli rispose Monteforte che stava ora alternando getti di acqua gelata e bollente

"Oddio, Lupo,sei messo malino allora. Ho l’impressione che avresti bisogno di una bella licenza, sai? Parla con il presidente, e dopo magari ti puoi fermare qualche giorno. Liuda, la mia amica lituana è socievolissima, e io nemmeno sono geloso".

Per essere sicuro che l’altro lo sentisse Lupo chiuse l’acqua, aprì la porta della cabina doccia e mise la testa fuori. "Un'altra parola, Filippo, una sola e telefono a tua moglie. Così Liuda la presenti a lei". Magri scrollò le spalle allontanandosi. "Uno vuole aiutarlo ed ecco il bel ringraziamento. Ma verrà il giorno in cui verrai tu a chiedere".

"Mai!", rispose ridendo Lupo.

"Mai dire mai, amico mio. Lo dovresti sapere".

Monteforte smise di frizionarsi con l’asciugamano e disse a voce alta, per farsi udire dall’amico che era tornato nel salotto. "Sei peggiorato, lo sai? Ma fammi capire, oltre a tutte queste fregole da liceale, ti sono anche tornati i brufoli?"

"Forse a me sono tornati i brufoli ma tu sei talmente rimbambito che ancora non ti sei accorto di nulla", ribatté Magri, ghignando.

Lupo non comprese il senso di quella risposta. Poi finalmente, prendendo la giacca dell'uniforme in mano, si avvide che i gradi sulle spalline erano da generale di divisione. Provò un senso di immediata inquietudine. Il suo attuale comando mal si conciliava con la seconda stella.

Entrò in salotto dove Magri, che lo stava aspettando, si esibì in un impeccabile saluto.

“Complimenti per la promozione, mio generale!“, ironizzò.

Lupo sollevò un sopracciglio, la sua espressione era tutt’altro che allegra. "A cosa devo...?", e indicò le spalline.

Anche Filippo si fece serio, stringendosi nelle spalle. "Ti giuro, non ne ho idea".

"E perché io comincio ad avere la netta impressione che tutta questa storia sarà una solenne fregatura?".

"Non lo so. Forse perché sei intuitivo?"

Lupo scrollò la testa, sempre più perplesso. “Filippo, ma vaffanculo, va. Ci muoviamo o no?”

Mentre si avviavano Magri non potè fare a meno di tornare sull’argomento. “Allora, ti è piaciuta la sorpresa?”. L’occhiata che ricevette in risposta era di quelle che incenerivano.

Lupo era convinto che se l’altro avesse saputo qualcosa lo avrebbe già informato, almeno a grandi linee, ma provò comunque a insistere. “Di solito quando il diavolo ti accarezza vuole la tua anima. Che c’è sotto? Filippo, avanti, fai il bravo e dimmi la verità”.

“Ti ho già detto che non so nulla, o meglio, sapevo della promozione, anche perché ho provveduto io all’uniforme. A proposito ho dimenticato qualcosa?”, rispose Magri, riferendosi ai nastrini multicolori e ai brevetti che fregiavano la giacca. “Mi sono ricordato pure che sei stato ferito quattro volte in azione”, continuò, indicando i quattro galloncini dorati sulla manica destra.

“Certo che sembri proprio un soldato vero”, aggiunse poi.

Monteforte gli rispose senza nemmeno rallentare il passo.“ Io non sembro, io sono un soldato vero, a differenza tua, che sei ormai un flaccido passacarte, pure bello cicciotello.Senti Filippo, questa storia mi piace sempre meno. Puzza di imbroglio ogni minuto di più. E io ci sono in mezzo. Che cavolo bolle in pentola, mi vogliono levare il comando? Il ministero è pieno di generali di divisione disoccupati”.

Magri si stava guardando addosso, borbottando, e non gli rispose proprio. "Cicciottello? Flaccido? Mah, magari avrò preso un paio di chiletti, ma ci metto niente a buttarli giù. E poi le maniglie dell'amore non hanno mai fatto lamentare nessuna".

Erano intanto giunti al secondo piano nobile di Palazzo Chigi, davanti all’appartamento privato del presidente. Una elegante assistente era in loro attesa e li guidò verso un salottino pregandoli di attendere qualche istante.

“Caro Filippo”, disse Lupo con un ghigno,"per quello che ne so, le maniglie stanno bene solo alle valige. E’pure vero, però, che tu cominci a somigliare a un baule".

Magri stava per rispondere stizzito, ma fu interrotto dall’arrivo del presidente e si allontanò subito, dopo un formale saluto militare

Lupo osservò la Del Lago venirgli incontro. L’aveva conosciuta nel 2018, quando si era precipitata in Afghanistan per complimentarsi con lui, all’epoca colonnello, e con i suoi uomini al termine di una complessa e delicata operazione che aveva portato alla liberazione di numerosi ostaggi.

Due mesi dopo Monteforte era stato promosso generale di brigata.

Veronica Del Lago aveva passato da poco i quarant'anni. La prima cosa che colpiva di lei erano i capelli, di un rosso tiziano sfolgorante, che molti attribuivano a una sapiente tintura, ma che visti dal vivo erano inequivocabilmente naturali. Era alta ed elegante. Il portamento aristocratico e i lineamenti del volto, delicati e volitivi allo stesso tempo, le conferivano un fascino particolare che andava oltre la sua indubbia bellezza. Gli occhiali da vista che si ostinava a portare, invece di sostituirli con lenti a contatto, erano una sorta di schermo tra i suoi occhi verdi e il resto del mondo. Insieme allo stretto chignon che racchiudeva la sua chioma sulla nuca, le davano un'aria da professoressa, magari un po'glaciale ma, allo stesso tempo, parecchio intrigante. Non c'era uomo che l’avesse conosciuta e non avesse fatto pensieri audaci su di lei. Eppure la Del Lago non indulgeva a nulla che fosse men che formale e distaccato, anzi. Era la quinta essenza della sobrietà, costruita attorno a eleganti tailleur di Armani, nei toni del grigio, del nero e raramente, in estate, di un bianco candido. Lei si divertiva ad abbinarci raffinate camice di seta tono su tono, mai vezzose e il più delle volte con colletti di foggia maschile. Non indossava gioielli a parte due punti luce di brillanti ai lobi delle orecchie e incredibili spille di tutte le fogge sul revers delle giacche, sebbene la sua famiglia fosse nota in tutto il mondo come un'importante dinastia di gioiellieri. Era una donna di intelligenza nettamente superiore alla media, brillante e perfino divertente quando voleva esserlo. Quasi mai, per la verità. Viveva il suo impegno politico come una missione. Era la vestale della sua nazione, che per lei veniva prima di ogni altra cosa. Amava l'Italia come di solito una donna ama un uomo, e aveva pochissimo tempo per tutto il resto. Incredibilmente, la cosa non le pesava, anzi. Intorno ai vent'anni, quand'era ancora una brillante studentessa universitaria, era stata perfino sposata con un compagno di corso. Un colpo di testa durato un paio d'anni, anche divertenti, poi aveva smesso di avere tempo per il marito, per la casa e perfino per gli amici.

Divenuta un brillante avvocato internazionalista, autrice di importanti pubblicazioni sull’arbitrato tra stati e sulla tutela dei diritti umani, era stata consulente di governi e delle più importanti multinazionali. In quel periodo aveva compreso bene come girava il mondo e non le era piaciuto nemmeno un po’.

Abituata a dire apertamente e senza troppi giri di parole quel che pensava, aveva introdotto questo stile nel rapporto tra istituzioni e cittadini. Un elemento di sincerità che era stato molto apprezzato dagli italiani quando, prima donna nella storia della repubblica, era divenuta il presidente del consiglio dei ministri al termine dei drammatici avvenimenti che avevano sconvolto l’Italia nella primavera del 2016. Ad aprile di quell’anno il premier in carica era rimasto ucciso in un terribile attentato che aveva provocato decine di vittime e l’Italia era precipitata in una spirale di violenza che l’aveva rapidamente condotta sulla soglia della guerra civile. La scomparsa del premier aveva provocato il collasso dei fragili equibri sui quali si era, fino a quel momento, retta tutta la baracca. Mentre i partiti tentavano, come sciacalli, di lucrare qualche vantaggio immediato dalla situazione, un senso di sconforto infinito e di totale incertezza si impadronì del paese. Decenni di politica delle fazioni, di struttura clientelare del potere, di mancanza di solidaretà e di rifiuto totale, quasi rabbioso, di ogni impegno morale e politico nei confronti della collettività, giunsero in quelle ore a completa maturazione e si fusero con una crisi economica, istituzionale e morale ormai giunta anch’essa oltre ogni livello di guardia.

L’Italia stava bruciando, ma la distanza tra popolo e classe dirigente era divenuta tale che nei palazzi del potere nessuno sembrò nemmeno avere una corretta percezione di quanto stava avvenendo. Furono giorni terrificanti che lacerarono quanto rimaneva del tessuto sociale, finchè il presidente della repubblica convocò al Quirinale i presidenti di camera e senato, i ministri in carica, i leader di tutti i partiti, il capo di stato maggiore della difesa, i comandanti generali dei carabinieri e della guardia di finanza, il capo della polizia e i responsabili dei servizi segreti militari e civili nel tentativo di concordare almeno dei provvedimenti che riportassero una parvenza di ordine.

Il capo di stato maggiore, che si era già consultato con i vertici delle forze armate e di sicurezza, suggerì discretamente, ma con molta convinzione, una radicale riforma costituzionale da portare a termine in tempi rapidissimi. Fu una palese invasione di campo ma non vi era tempo da perdere se si voleva evitare il collasso definitivo. Le parole dell’alto ufficiale provocarono la sdegnata reazione di gran parte dei presenti, che continuavano a sottovalutare la gravità degli avvenimenti in corso, ma il capo di stato maggiore, senza scomporsi, replicò che i militari non si sognavano certo di prevaricare il potere politico, o peggio di sovvertire le istituzioni, ma non intendevano nemmeno assumersi il terribile compito di riportare l’ordine nelle strade a esclusivo vantaggio di una classe politica palesemente irresponsabile. Comunicò quindi, in maniera molto asciutta, che le forze armate non erano disponibili a spargere sangue italiano per mantenere lo status-quo. Occorreva una decisa svolta che sancisse un netto cambio di rotta rispetto al passato, disse, garantendo poi che durante il periodo necessario ad attuare la riforma i militari avrebbero garantito l’ordine pubblico, ma se nulla fosse accaduto sarebbero rientrati nelle loro caserme, autoconsegnandosi

Nonostante i pesanti giudizi di merito sul ceto poltico, nessuno se la sentì di replicare e l’immediata condivisione di quella proposta da parte dei comandanti di carabinieri, finanza, polizia e servizi, troncò sul nascere ulteriori discussioni.

Lavorando giorno e notte, in breve tempo la costituzione venne radicalmente riformata e tra i tanti cambiamenti introdotti il presidente del consiglio, eletto direttamente dal popolo, ebbe poteri effettivi. Simili, se non addirittura superiori, a quelli vigenti nelle repubbliche presidenziali.

A Ottobre del 2016 l’Italia andò al voto con le nuove regole e, inaspettatamente, le elezioni vennero vinte da questa giovane donna che si affacciava per la prima volta in politica, alla guida di un eterogeneo movimento di resurrezione nazionale che si era formato già da alcuni mesi in rete, aggregando milioni di italiani di ogni estrazione politica che non ne potevano più della situazione.

Veronica Del Lago parlò con chiarezza, senza minimizzare la gravità della situazione italiana, internazionale ed economica, e soprattutto senza perdersi in promesse impossibili da mantenere. Non fece proclami. Disse la verità e indicò un percorso per uscire dall’inferno nel quale erano stati precipitati. Gli italiani, esausti e impauriti da quanto era appena accaduto e da un futuro che appariva sempre più difficile, le credettero.

Fu un plebiscito che travolse il vecchio potere, demolendolo fin nelle fondamenta. Poi, nel Luglio del 2019, subito dopo il dissolvimento dell’eurozona e della UE, la Del Lago si dimise, anticipando il voto di un anno per affrontare la nuova situazione internazionale con un mandato intero di fronte a sè. Venne rieletta con una maggioranza ancora più schiacciante della prima volta, ritornando a Palazzo Chigi forte di un consenso mai registrato in precedenza nella storia della repubblica. Un successo talmente ampio che le consentì di travolgere ogni resistenza e nazionalizzare la banca centrale. Tutto ciò era successo nei cinque anni precedenti, ma sembrava un secolo tanto le cose erano cambiate.

La Del Lago si fermò a due passi da Monteforte, immobile in un perfetto saluto militare. Per un lungo momento i due si squadrarono, si soppesarono e si giudicarono reciprocamente. Poi il presidente, con un lieve sorriso che le increspò appena le labbra, si avvicinò e porse la mano all'ufficiale.

“Comodo, generale, buongiorno. Ha fatto buon viaggio?”.

Lupo si rilassò, rendendosi conto che per essere una donna, aveva una stretta insolitamente forte.

“Buongiorno presidente. Abbastanza, data l’urgenza con cui sono stato convocato, grazie”.

Non gli era proprio riuscito di trattenere quella frecciatina che peraltro venne immediatamente colta. Il sorriso di Veronica si fece più profondo. "Capita, a volte, di non poter rimandare. E questo è uno di quei casi, mi creda", rispose, e Lupo apprezzò che da un certo punto di vista lei avesse quasi provato a giustificarsi.

“Venga, si accomodi” disse Veronica facendogli strada attraverso la Sala delle Marine, fino al Salone d’Oro e richiudendo la porta alle sue spalle. “Come vanno le cose giù?”, chiese.

Lupo ebbe l'impressione che fosse una domanda formulata più per cortesia che per reale interesse. Che voleva quella donna da lui? La seconda stella iniziò a bruciare sulle spalline quasi fosse incandescente.

“Al solito", borbottò. Poi, volutamente, si dilungò sull'argomento per verificare se l'impressione avuta poco prima fosse corretta.

"Sono sempre più aggressivi e tenerli a bada diventa sempre più difficile e faticoso, signora”.

Il presidente annuì pensierosa, mentre osservava l’espressione del volto del suo interlocutore. Ma era distratta, lontana, come se dentro di sé inseguisse ben altri pensieri.

“E’un maledetto pasticcio dappertutto. Un pasticcio che ormai è arrivato alle porte di casa nostra. Avremmo dovuto pensarci prima, adesso è tardi per recriminare e non voglio tra l’altro guastare i nostri eccellenti rapporti con gli Stati Uniti in questo momento. Soprattutto alla luce di quanto, tra poco, le spiegherò”.

Ecco, pensò Lupo, brava, mi spieghi.

Si sedettero su due divani contrapposti, separati da un tavolino dorato con un ripiano in onice e rivestiti da un improponibile tessuto damascato bluette che faceva a pugni con lo sfarzo dell'ambiente circostante.

“Generale, non l’ho fatta venire per parlare di Afghanistan, quindi veniamo subito al dunque. Le premetto che qualunque sia l’esito finale, questa conversazione è strettamente riservata. Forse troverà il quesito che sto per porle abbastanza strano, forse addirittura stravagante ma le assicuro che non è così. La prego solo di non avere remore di alcun tipo nel dirmi ciò che pensa”.

Si appoggiò allo schienale del divano e accavallò le lunghe gambe. Ai piedi calzava décolleté classiche di Louboutin, nere e senza doppiofondo. Ne risultava un bel vedere. Fissò Lupo in fondo agli occhi, per alcuni attimi, prima di riprendere a parlare.

“Cosa pensa della situazione complessiva mondiale? Intendo dire dell’economia, dello stato di salute del pianeta, dei fenomeni migratori, dei conflitti in corso e in preparazione e degli squilibri economici e sociali sempre più marcati. Insomma cosa pensa del mondo in cui viviamo e quale mondo ci dobbiamo aspettare in futuro secondo lei?”

Di nuovo quegli occhi verdi, resi più grandi dalle lenti da miope, lo scrutarono con quello sguardo penetrante, quasi intimo se non fosse stato per la montatura di tartaruga degli occhiali che dava al tutto un impercettibile tocco di frivolo. Sorrise anche, mentre lo guardava. Un sorriso brevissimo per la verità, solo un lampo bianco dei denti tra le labbra. “Forse sono stata succinta nella domanda, ma penso di essere stata chiara”, concluse infine.

Lupo era allibito. Questa è matta, pensò per un secondo, ma sapeva che non era così. E allora? Che razza di domanda le aveva fatto, e a quale scopo poi? Cosa poteva interessare a Veronica Del Lago della sua visione della vita, della sua idea di economia, e di come avrebbe mai risolto le problematiche del mondo? Se mai si fosse posto il problema e soprattutto se mai avesse potuto farlo, ovviamente. Quella domanda sembrava uno di quegli strambi temi che ogni tanto venivano dati alla maturità, per far scrivere qualcosa anche agli studenti più scarsi. Quasi immaginò che fosse tutto una burla, ma un altro sguardo all'espressione sul volto di lei gli fece comprendere che il presidente non scherzava affatto.

"Signora, per caso vuole sapere qual è la mia idea del senso della vita?", chiese.

La donna annuì. "Sì, in un certo qual modo si potrebbe riassumere così".

Lupo cercò di rimanere serio, almeno quanto lo era lei. "E mi permetta, visto che mi ha chiesto franchezza, perché le interessa?". Poi provò a buttarla lì. “O è qualcosa che ha a che fare con la mia promozione...”.

Veronica si alzò dal divano, si avvicinò a un mobile bar, aprì una bottiglietta di Evian e versò il liquido in un bicchiere.

"Ha sete?", chiese poi a Monteforte. Lui scosse il capo. Lei gli sorrise. "Io sì. Quando affronto questo argomento, mi viene sempre sete. Forse è un riflesso condizionato e dopo capirà perchè".

Bevve più di mezzo bicchiere prima di appoggiarlo sul tavolino in mezzo a loro.

Forse è davvero matta, tornò a pensare Lupo.

"Allora, generale, mi ha chiesto perché le ho posto quel quesito e se ha attinenza con la seconda stella, no? Non sia impaziente, ogni cosa a suo tempo.Vuole rispondermi, intanto?", lo fissò dritto negli occhi e Lupo ebbe la netta sensazione che stava per aprirsi una porta, varcata la quale nulla sarebbe stato più come prima.

“Come vuole, signora, ma forse abuserò del suo tempo. Converrà che la domanda, anche se concisa, è parecchio complessa. Piuttosto, lei pensa di poter sopportare gli sproloqui di un soldato un filino incazzato? E spero che perdonerà il termine, più adatto a una caserma che a questo bel palazzo".

La risata della Del Lago trillò allegra, ma sufficientemente contenuta da non risultare irritante.

"Ma no, generale. Avanti, non sia puerile. Non crederà davvero di potermi scadalizzare con una parolaccia e un'espressione truce, ha presente con che razza di serpenti mi devo confrontare ogni ora della mia giornata?”

La replica di Monteforte fu secca come il rumore di un ramo che si spezza. "Detesto non sapere da quanti piani sto per cadere, e divento nervoso fino a che non ho ben chiaro il quadro della situazione".

"Chi le dice che lei stia per cadere. Si fidi, Lupo o almeno sia così carino da farmi credere che lo sta facendo". Gli sorrise, e stavolta il suo sorriso era caldo, di quelli capaci di sciogliere un iceberg.

Monteforte si rilassò. La Del Lago avrebbe avuto le sue risposte. "Le anticipo subito che sono molto pessimista".

Veronica sorrise. "Chissà perchè ma lo avevo immaginato".

"Tutti i problemi che ha elencato non nascono certo ora”.

"Condivido, generale".

"Risalgono almeno al dopoguerra, quando ha preso le mosse l’ultima fase della storia contemporanea, quella che ci conduce ai nostri giorni e si è affermato un modo di vivere che ha quale unico fondamento il benessere materiale”.

Veronica lo interruppe. "Lo trova così disprezzabile?"

“No, ma non credo che possa essere posto alla base della nostra esistenza. L’ubiquità e la potenza dei mass-media sono stati in grado di operare una profonda trasformazione delle coscienze e della nostra società, imponendo archetipi e modelli culturali pienamente conformi al modello di vita che era stato imposto e ignorando, tacendo e distorcendo quanto contrastava o si allontanava da esso”.

Fece una pausa, cercò nelle tasche il pacchetto delle sigarette e si avvide che il presidente lo fissava attenta.

“Dovrei smettere, ma non trovo mai il momento buono. Le dispiace se fumo?”, le chiese, fornendo una parvenza di giustificazione che reputò patetica nell’attimo stesso che gli uscì dalla bocca.

Veronica annuì e ridacchiò. "Non ci posso credere, un atleta come lei che fuma?".

Lupo le lanciò un'occhiata divertita. "Beh, mi conceda almeno un piccolo vizio...".

"Per carità, faccia pure, non mi dà fastidio. A essere sincera, però, non era esattamente il tipo di vizio che avrei associato a lei. Ma la prego, vada avanti con quel che mi stava dicendo".

Chissà quale sarà il mio vizio secondo lei, pensò Lupo, malgrado tutto intrigato da quella donna. Poi si schiarì la voce e tornò a parlare.

“Ormai ha preso forma e si è affermato un nuovo tipo di organizzazione sociale che investe e modifica ogni aspetto della vita. Anche l’ambito militare è stato adeguato alle nuove necessità, con la lenta e inesorabile trasformazione del soldato in un tecnico-mercenario con compiti di polizia estesi oltre i confini nazionali. E qui bisogna essere chiari: io magari sarò anche all’antica, ma gli eserciti servono per fare la guerra, e la guerra è una cosa seria. Talmente seria che bisognerebbe riflettere a lungo prima di cominciarne una. Ma gli eserciti a questo servono, non per spalare spazzatura”.

"La sta mettendo giù dura", lo interruppe la Del Lago.

"Vuole la verità, signora, o la versione zuccherata?".

"La verità, ovviamente. E mi faccia un favore poi, cerchiamo di essere meno formali in privato. La smetta con questa signora che mi fa sentire mia nonna, mi chiami pure Veronica".

"Va bene Veronica, come desidera, e per tornare al dunque, oggi come sempre si va a fare la guerra, che è il fine ultimo dell’esistenza degli eserciti ma a questo punto incappiamo nel più assurdo dei paradossi. Ufficialmente, infatti, la guerra non c’è più. Anche se non ci sono mai state così tante aree di conflitto e di instabilità nel mondo, la parola guerra è stata abolita dal dizionario e al suo posto troviamo l’accattivante favola che gli eserciti servono a difendere la pace e a esportare la democrazia”.

Senza chiedere il permesso, Lupo si alzò, raggiunse il mobile bar e si versò anche lui dell'Evian in un bicchiere facendo segno a Veronica se ne volesse anche lei.

“E un sacco di gente ci crede pure a questa favola”, borbottò.

Il presidente lo guardò con aria interrogativa mentre rifiutava l’acqua con un cenno della mano. Monteforte continuò a spiegare.

“Gli americani, che precorrono sempre i tempi, ormai da anni utilizzano sempre di più compagnie militari private. Hanno nomi esotici, Blackwater o come si chiama adesso Xe, e poi Watchguard, DynCorp, Triple Canopy, Aegis, Sandline International. Insomma, non vi è che l’imbarazzo della scelta. Sono armate ed equipaggiate perfettamente per questo genere di conflitti a bassa intensità e risolvono un sacco di problemi a tutti. E poi vuoi mettere? Le megaconglomerate adesso possono sistemare i loro affari in tempo reale. Il dittatore della Liberia fa le bizze? Pam! Si manda Blackwater che lo caccia a pedate nel sedere in un batter d’occhio. Dobbiamo montare un po’ di casino contro un governo che non piace alle meravigliose democrazie occidentali. Alè, arrivano loro, sparano su polizia e dimostranti e il gioco è fatto. Insomma tutto fila che è una meraviglia. Sono l’ultima rivisitazione dei cari, vecchi mercenari, ma mercenario suonava male, quasi come guerra, e così adesso li chiamano contractors. Non sono soggetti a regole d’ingaggio, alla giustizia militare, agli obblighi e ai diritti previsti dalla convenzione di Ginevra per le truppe regolari e per loro non ci sarà mai posto nel cimitero di Arlington. Li reclutano un pò dappertutto e possono morire senza turbare il sonno e la coscienza di nessuno”.

Lupo scosse lentamente il capo.

“E’difficile per tutti percepire con chiarezza quanto le sto dicendo. Tutto si riduce a sfumature, a una questione di punti di vista e di convenienze e ciò che non viene raccontato dai media è come se non fosse avvenuto, e ormai non vi sono limiti alla manipolazione delle notizie”.

Veronica annuì con un sospiro. "Credo che accetterò una sigaretta, se me ne offre una, Lupo", disse.

Prese il pacchetto di Gauloises che lui le porgeva, lo guardò e sollevò un sopracciglio. "Non mi ero accorta che pagassimo tanto male i nostri generali", commentò tirando fuori una sigaretta gialla. Ridacchiava.

"Mi dispiace - disse Lupo - ho cominciato a fumarle durante un'operazione in Africa. Si protrasse più del previsto, e da quelle parti si trovavano solo queste”. Le accese la sigaretta e con grande stupore osservò la donna tirare una convinta e soddisfatta boccata. Più la conosceva e più gli sfuggiva.

"Tornando a noi – riprese - comprenderà che in un simile contesto il confine tra interesse nazionale e altri tipi di interessi, di natura, diciamo, strettamente privata, diventa assai labile per non dire inesistente. Le guerre hanno sempre affondato le loro radici nell’economia, trovando però la loro legittimazione in un superiore interesse della comunità. Da tempo non è più così”.

L’ufficiale spense con un gesto stanco la sigaretta nel posacenere.

“La guerra è ormai asservita all’interesse economico di pochi e l’economia imposta come una religione, e come tale percepita da tutti. E anche qui gli infaticabili manipolatori hanno estratto dal cilindro la parola magica nella quale ognuno può riconoscersi: modernità e nessuno può essere così stupido da opporsi alla modernità. Così, in suo nome, si tramutano guerre e disperazione in cumuli di denaro. Tre semplici parole: pace, democrazia, modernità e il gioco è fatto. Il più aggressivo e pericoloso imperialismo che la storia abbia mai conosciuto, il potere economico, ha mano libera. Qualcuno, mi pare Junger, disse: è in atto un tentativo, tipicamente aritmetico, di tramutare il destino in una grandezza definibile con strumenti di calcolo. Roba da ragionieri, o forse da strozzini, che sono poi coloro che ormai da tempo governano il mondo".

Il presidente lo guardava in silenzio, riflettendo sulle parole che aveva udito, poi pigiò il pulsante dell'interfono. "Per favore, Nicoletta, del caffè e qualcosa da mettere sotto i denti. Grazie".

Chiuse la comunicazione e tornò a guardare Lupo. "Immagino che non abbia fatto nemmeno colazione. Avrà una fame da lupo", le sfuggì, e mentre lo diceva si rese conto e le venne da ridere. "Mi perdoni, mi è venuto spontaneo”.

Monteforte sghignazzò. "Si immagini, è da quando sono nato che convivo con questi giochi di parole. Comunque stia tranquilla, ormai non ci faccio più caso. Le garantisco che Lupo va benissimo, poteva toccarmi in sorte anche di peggio, considerati i nomi di famiglia".
Veronica afferrò la palla al balzo per compensare con un complimento. "Già, la sua è una famiglia nobile che affonda le sue radici nella storia più antica del nostro paese. Che effetto fa aver avuto antenati che hanno combattuto alla Crociate?"

"Mi crede se le rispondo che non me lo sono mai chiesto?", disse l’ufficiale, mentre la porta si apriva e compariva Nicoletta, con un grande vassoio d'argento che appoggiò sul tavolino di fronte a loro.

"Venga, si serva”, gli disse Veronica. “Questi piccoli cornetti sono una delizia. Ne assaggi uno e tenga alti gli zuccheri". Fece una breve pausa, “...che il bello deve ancora arrivare”, concluse, poi.

Mentre prendeva il croissant mignon Lupo le lanciò un’occhiata indagatrice. Mangiarono in silenzio bevendo caffè nero.

Fu la Del Lago a riprendere il discorso.“In effetti è un mondo pieno di contraddizioni e molto pericoloso".

"Contraddizioni mi pare poco. Potrei parlare ore per rispondere alla sua domanda...”, rispose Lupo, poi fece un sorriso, “ma credo che abbia capito come la penso, anche rispetto ai casini dove siamo ancora impantanati e a tutti gli altri posti dove ci precipitiamo a diffondere pace e democrazia a suon di cannonate”.

Si accese l’ennesima Gauloise e la guardò per qualche secondo, con aria assorta. “E adesso basta, sto zitto davvero, che solo a parlare di questa roba mi si è già rovinata la giornata".

Si abbandonò sullo schienale, cupo in volto.

Il presidente si tolse gli occhiali, si massaggiò le tempie e sospirò.

“Non si può certamente dire che sia stato timido a esporre le sue idee”. Si versò un po’di spremuta d’arancio e bevve un sorso prima di continuare. “Grazie per la franchezza, Lupo. Le garantisco che l’ho apprezzata più di quanto possa immaginare e credo che dovrò rivedere la mia opinione sui militari. Avendo capito il tipo, pensavo che piovesse, ma...caspita !”.

Giocherellò per un attimo col dito sull’orlo del bicchiere, rimuginando un pensiero che venne subito fuori. "Mi dica, però, se la pensa così, perchè continua ancora a vestire l’uniforme e a mettere a repentaglio la sua vita? Alla fine, lei difende un sistema che diprezza”. Tacque per un attimo, poi lo guardò dritto negli occhi. “Lei è un ribelle, Lupo...”. Si fissarono in silenzio, poi un sorriso apparve sul volto della Del Lago, si allargò e le illuminò per un attimo il volto. “Addirittura un golpista potenziale”, concluse. “Non trova ci sia una contraddizione in tutto ciò?”

Monteforte scoppiò a ridere, scuotendo divertito la testa. “Un golpista? Mah, a volte lo penso anch’io, specialmente quando i dubbi e le domande non trovano risposta. Comunque, per quanti dubbi io possa avere sono un soldato, e ho prestato un giuramento che non lascia scampo, anche se di questi tempi il pacifismo offre un comodo alibi a tutti coloro che sono troppo stanchi per battersi e troppo vigliacchi per morire. Viviamo in tempi difficili, Veronica, e alla fine ci si rende conto di aver perduto tutto e di essere ormai prigionieri della propria uniforme. Ad alcuni, però, resta l’orgoglio. Per pudore lo chiamano onore”.

Veronica quasi non respirava per non interrompere quell’attimo.

Lupo riprese a parlare. “Le ultime parole non sono mie, sono di un ufficiale francese. Un capitano dei paracadutisti, se ricordo bene. L’epitaffio di una bella sconfitta. Indocina, Route Coloniale 4, gran brutta storia anche quella e la frase rende dicretamente bene l’idea su come mi sento. Oggi si combatte e si muore ai quattro angoli del mondo, come sempre è stato, ma non esiste più un ideale comune che faccia versare alla nazione qualche lacrima sulle fosse e sulle bare del suo esercito. In fondo la piccola vicenda bellica del capitano francese cui ho rubato le parole e dei suoi uomini, insignificante per tutti meno che per loro, vuole dire proprio questo. Si muore e si uccide per il profitto dei banchieri, questa è la verità, e ognuno di noi, allora, si va a cercare la patria, che è stata la prima a morire, dove crede. Nel reggimento, nei commilitoni, o forse nello stesso coraggio". Si fermò un attimo per tirare il fiato, poi chiese.

"Lei crede forse che nel tardo impero le legioni comitali combattessero per questo o quell’imperatore del quale, probabilmente, non conoscevano più nemmeno più il nome?”.

La Del Lago, incredibilmente, ridacchiò. "Beh, potremmo provare a chiederglielo”.

Lupo prese quella battuta come un tentativo di far diminuire la tensione e fece una smorfia amara.

“Quei legionari della riserva generale, decimati, sfibrati, distrutti, che correvano da un capo all’altro dei confini, si battevano per salvare il salvabile, per proteggere le popolazioni e in fondo, ma non troppo, per i commilitoni e per se stessi. Per il loro orgoglio di soldati”.

Fece una pausa, poi fissò il presidente negli occhi.

“O perlomeno mi piace pensare che alla fine difendessero l’ultima cosa che era loro rimasta, la speranza. Credere che sia andata così, lascia una speranza anche a noi”.

Il presidente si alzò dalla poltrona e andò a una finestra. Guardò fuori per alcuni lunghi attimi, assorta nei suoi pensieri. Poi si voltò e nel suo sguardo vi era una profonda comprensione per quanto aveva udito.

“Già, difendere la speranza...”, mormorò, poi riprese con tono molto più deciso.

"Se il problema che abbiamo davanti si limitasse allo sfacelo morale che ci circonda e a un modello di ordine mondiale che fa acqua da tutte le parti, malgrado quanto lei ha detto, se ci fosse ancora una storia davanti a noi, alla fine ci potremmo ancora stare”.

Veronica lo guardò, e i suoi occhi verdi dietro alle lenti parvero immensi a Monteforte che sostenne quello sguardo magnetico.

“Vede, Lupo, ho sempre pensato che non esistono molte categorie di combattenti. Ce ne sono solo due. Quelli che vanno all’assalto sul serio, e gli altri. Sono contenta di non essermi sbagliata su di lei e forse rimarrà stupito di quanto sto per dirle ma lei è fondamentalmente un ottimista, il che, in termini assoluti e vista la situazione, che è molto ma molto peggiore di quanto lei possa ipotizzare, non guasta. Un ottimista e un romantico idealista, e le garantisco che non è un’offesa, ma anzi è uno dei motivi per cui lei si trova qui”.

Si rimise seduta e accavallò le gambe, indugiando ad aggiustarsi la gonna mentre Lupo cominciava davvero a sentirsi sulle spine. Parlavano da almeno due ore e lui ancora non sapeva cosa volesse il presidente che non aveva ancora sfiorato, peraltro, il perchè della sua promozione. Poi, nelle ultime frasi quegli strani riferimenti a un futuro che non c'era più... Per caso avevano un asteroide in rotta di collisione e lui non ne sapeva nulla?

Germania superiore - 22 Agosto 9 d.C. –

Un cane abbaiò. Un abbaiare isterico che attraversò le menti ottenebrate dall’alcool di molti dei guerrieri che giacevano ubriachi nelle capanne e nelle stradine del piccolo villaggio. Quelli che avevano retto meglio le libagioni di quella notte aprirono gli occhi e tentarono di mettersi in piedi. La grossa banda di predoni bructeri aveva conquistato il piccolo insediamento dei cauci situato sulla riva occidentale del fiume Visurgis[2], massacrando quasi tutti gli abitanti maschi e violentando le femmine in un’orgia di ferocia, birra e idromele che era andata avanti fino a notte inoltrata, quando anche gli ultimi razziatori rimasti in piedi, erano stramazzati al suolo, gonfi di alcool e di cibo.

“Gli dei maledicano quel cane, tra breve saranno tutti svegli. Attacchiamo subito!”.

Lucio Valerio Macrino, tribuno laticlavio[3] della XVII legione, si voltò verso Marco Domizio Aquila, il centurione che aveva parlato, e annuì. “Andiamo”. Poi l’ufficiale si alzò in piedi con il gladio in pugno e segnalò ai legionari, nascosti nella boscaglia attorno al villaggio, di avanzare.

I romani erano sbarcati sulla riva occidentale del Visurgis alcune ore prima, sul calare della sera. Erano partiti dall’accampamento estivo della loro legione, situato parecchie miglia più a monte, sulla sponda orientale, dove le acque del fiume perdevano energia e il corso d’acqua formava una grande ansa a forma di U. Avevano disceso il fiume a bordo di navi fluviali da trasporto che attendevano alla fonda il loro ritorno, insieme alle sei liburne[4] della flotta del Reno che le avevano scortate. La riva era sorvegliata da una centuria[5] di classiari, i fanti di marina romani, e da uno dei manipoli[6] della coorte[7] di Macrino. Un altro manipolo si era fermato a metà strada tra il fiume e il villaggio per coprire le spalle della vexillatio[8] che avrebbe attaccato i predoni.

Erano mesi che alcune grosse bande di razziatori bructeri imperversavano nei territori dei cauci, popolo federato con i romani. Dopo l’ennesima lamentela dei notabili di quella tribù, il governatore romano, Varo, aveva deciso di dare un segnale forte della presenza di Roma a nemici e alleati. Il tribuno laticlavio Lucio Valerio Macrino, comandante della prima coorte miliaria della XVII legione[9], aveva così ricevuto l’ordine di varcare il Visurgis con quattro dei suoi manipoli per dare una lezione ai predoni che spadroneggiavano sull’altra riva.

I romani muovevano in silenzio verso il villaggio, distante non più di duecento metri dalla boscaglia. Il cane adesso li aveva sentiti e il suo abbaiare divenne addirittura furioso, uno dei bructeri che si erano rimessi in piedi li vide avanzare nella bruma dell’alba e diede l’allarme mettendosi a urlare come un pazzo.

“I romani! Svegliatevi! I romani sono qui!”.

Macrino udì le grida e si voltò verso i suoi uomini. “Avanti, di corsa!”

I romani percorsero in un lampo le poche decine di metri che li separavano dalle prime capanne e abbatterono rapidamente i guerrieri che ne stavano uscendo, instupiditi dall’alcool e dal sonno e incapaci di qualsiasi reazione. Il rumore della battaglia si udiva ora in tutto il villaggio. I legionari stanavano i razziatori dai loro nascondigli e li liquidavano con rapide stoccate dei loro corti gladi ispanici.

“Manlio, manda degli esploratori a occidente”, ordinò Macrino a Manlio Metello Cerone, il centurione primus pilus[10] della XVII che lo stava seguendo da presso. Lo scontro nel villaggio stava volgendo al termine, i bructeri erano stati colti alla sprovvista, nonostante il cane, e i legionari stavano rapidamente soffocando gli ultimi focolai di resistenza. Fino a quel momento era andato tutto secondo i piani e Lucio non voleva essere sorpreso da qualche altra banda di predoni che si aggirava da quelle parti e magari era stata richiamata dal frastuono della battaglia. Il tribuno abbattè con fulminei affondi due barbari che tentavano di sbarrargli la strada e si trovò al centro del villaggio.

Si fermò guardandosi intorno. Accanto a lui Marco Domizio Aquila e i legionari della sua scorta si erano disposti per proteggerlo anche se la scaramuccia era ormai agli sgoccioli. Chiamò un centurione che stava passando nei pressi. “Camillo!”

L’ufficiale accorse e salutò portandosi il pugno destro al cuore. “Cosa comandi tribuno?”.

“Prendi i tuoi uomini e controllate le capanne. Non credo che sia rimasto nessun abitante del villaggio vivo, ma controlliamo. Poi incendiate tutto. Cercate di fare in fretta e vediamo di andarcene da qui”.

Camillo Sulpicio Druso annuì col capo e corse via.

“Pare che sia già finita”. La voce di Aquila risuonò alle spalle di Macrino. “Non è stato poi un granchè, questi bructeri in fondo sono buoni solo a far razzie. Come guerrieri non valgono molto, non hanno opposto una grande resistenza”, terminò il centurione.

Macrino aveva caldo. Si tolse l’elmo e si passò una mano tra i capelli, poi chiese dell’acqua. Un legionario gli passò la borraccia e il tribuno bevve due lunghe sorsate. Le prime capanne avevano iniziato a bruciare. Stava pensando che era ora di rimettersi in movimento per tornare al fiume, quando Cerone arrivò di corsa.

“Abbiamo trovato due capanne, le più grandi, piene di donne e bambini.I bructeri se li volevano portare via come schiavi. Saranno una sessantina di persone che facciamo?”

Già che facciamo, pensò il tribuno. Da lì al fiume erano circa una decina di miglia[11], al massimo tre ore per i suoi uomini. Due, o anche meno, se dovevano fare in fretta. Con le donne e i bambini ci avrebbero messo molto di più, ma non poteva lasciarli lì. Avevano varcato il fiume per far sentire la presenza romana su quella sponda e quella gente apparteneva a una tribù federata.

“Li portiamo via con noi”, disse al centurione che annuì senza replicare.

“Speriamo che gli dei non ci regalino qualche bella sorpresa”. La voce di Aquila diede corpo ai timori di Macrino. Se avessero dovuto combattere, quei civili avrebbero rappresentato un problema non da poco.

Ci volle un’altra ora prima di mettersi in marcia verso il fiume. Il tribuno aveva mandato tesserari[12] per avvertire il manipolo a metà percorso e quello di guardia alle chiatte che stavano tornando indietro. Avevano percorso solo un paio di miglia quando un optio[13] degli speculatores[14] che avevano controllato i dintorni del villaggio lo affiancò.

“Abbiamo compagnia, tribuno”.

“Che vuoi dire?”, rispose Macrino cercando di non far trasparire la sua apprensione.

“Due grosse bande di predoni, non meno di millecinquecento guerrieri, si stanno avvicinando al villaggio. Sanno che siamo qui. Qualcuno del gruppo che abbiamo attaccato è riuscito a fuggire si vede, e a trovare i loro compagni”.

“Quanto distano?”.

“Meno di un miglio”.

Macrino si disse che al massimo avevano mezz’ora di vantaggio. Una inezia. “Sorvegliateli da presso, voglio essere avvisato a mano a mano che si avvicinano a noi”, ordinò all’optio che si allontanò per raggiungere i suoi uomini.

Marco Domizio Aquila si era intanto posto al suo fianco. “Cosa intendi fare? Ci saranno addosso tra breve. Dai numeri che ho udito siamo in un rapporto di uno a quattro”.

Le parole dell’anziano ed esperto centurione certificavano una situazione che Macrino aveva giudicato già di suo molto critica.

Anche Manlio Metello Cerone si era avvicinato, in attesa di ordini.

“Manlio, manda il legionario più veloce che abbiamo ad avvisare il manipolo che attende a metà strada. Devono venirci incontro con la massima velocità. Tu prendi due contubernia[15], vai avanti con i civili e raggiungete le chiatte. Se dopo tre ore non ci vedrete arrivare, andate via”.

Cerone voleva replicare ma uno sguardo di Macrino lo fece desistere. Non era il momento di perdersi in chiacchiere.

“Sarà fatto come comandi, legato”, rispose il centurione portandosi il pugno destro al cuore, poi corse via.

Aquila guardò il ragazzo la cui vita gli era stata affidata dal padre, il legato imperiale Massimo Valerio Macrino, e considerò che questa volta sarebbe stata una bella impresa tenere fede all’impegno che si era assunto di riportarlo a casa vivo.

“Come intendi fare?”, gli chiese.

“Se ricordo bene, più avanti c’è una vasta radura dove potremo schierarci. Li attenderemo lì, alla fine sono solo quattro o cinque volte superiori di numero – ghignò - ma se procediamo in colonna dentro la foresta e ci sorprendono alle spalle, siamo spacciati”.

“Già, solo quattro o cinque volte. Che vuoi che sia...”, pensò Aquila scuotendo la testa e avviandosi verso il contubernium di legionari della cohors praetoria[16] della XVII legione addetto alla protezione del tribuno.

Mentre il gruppo di Cerone, con donne e bambini, si allontanava forzando il passo per quanto possibile, i due manipoli di Macrino, circa trecentocinquanta uomini, serrarono le fila accorciando il più possibile la colonna.

22 Agosto 2021 – Palazzo Chigi – Roma

“Bene generale, veniamo al motivo per il quale l’ho fatta venire qui e la prego di ascoltarmi attentamente”.

Lupo cercò di mascherare l’ansia di sapere e annuì con la testa.

"Nel 2003 - riprese la Del Lago - il Pentagono commissionò uno studio su quale fosse l’effettivo stato di salute del nostro pianeta, con particolare riferimento ai cambiamenti climatici e come i mutamenti in atto avrebbero interagito con le esigenze di sicurezza nazionale degli Stati Uniti.

Dopo alcuni mesi, nell’ottobre dello stesso anno, venne consegnato un rapporto, denominato Schwartz-Randall dal nome dei due consulenti[17] che lo avevano redatto, che venne immediatamente segretato per impedire che il suo agghiacciante contenuto divenisse di dominio pubblico. Una copia di tale rapporto, però, attraverso le misteriose strade che a volte vengono percorse dai documenti più riservati, finì in mano a due giornalisti, Mark Towsend e Paul Harris, che lo pubblicarono sul settimanale The Observer, nei primi mesi del 2004.

La reazione della Casa Bianca fu abbastanza indispettita e il portavoce del Pentagono dell’epoca, Daniel Hetlage, arrivò a definire non plausibile quel rapporto, da loro stessi commissionato.

I contenuti dell’articolo del The Observer vennero ripresi da quasi tutta la stampa mondiale ma dopo qualche settimana, come sempre, la notizia perse interesse e si smise di parlarne. Qualcuno aveva detto che eravamo prossimi alla fine del mondo, ma la questione non sembrava rivestire poi questa grande importanza.

Io decisi però di andare a fondo a questa storia, anche perchè sia Schwartz che Randall non erano certo due attivisti del movimento ecologista o membri di qualche congrega di pazzi visionari, tutt’altro.

Ambedue repubblicani convinti, uno, Schwartz, era consulente della CIA e l’altro, Randall, era membro del think-thank conservatore californiano Global Businness Network, e nel predisporre la relazione si erano avvalsi della collaborazione dei maggiori esperti e scienziati del paese. Quello studio era stato commissionato dal Pentagono, era per uso interno e doveva rimanere segreto, insomma c’erano tutti i presupposti per ritenerlo attendibile e per non gettarlo frettolosamente nel cestino. Quindi, nel 2016, appena vinte le elezioni, commissionai a un selezionato gruppo di scienziati italiani il medesimo studio e ottenni il medesimo risultato, aggravato dal fatto che erano trascorsi altri dodici anni.

Il primo elemento che balza agli occhi leggendolo, non è la quantità e la qualità dei disastri che madre natura ha in serbo per noi e che ha già iniziato a propinarci ma la rapidità, una volta che sarà stato superato il punto critico, con cui gli avvenimenti si svolgeranno.

Per farle solo qualche esempio, quando l’aumento di temperatura raggiungera i 2°C, il permafrost siberiano e canadese, che immagazzina miliardi di tonnellate di CO2 e di metano, si scioglierà e i gas sfuggiranno repentinamente nell’atmosfera. Lo stesso avverrà con gli idrati di metano. Tremila miliardi di tonnellate di metano chiuso in bolle congelate e pressurizzate sul fondo degli oceani lungo le piattaforme continentali. Tenga presente che il metano ha un effetto serra sessantadue volte superiore al CO2 e dia pure libero sfogo alla sua fantasia per avere una vaga idea di quello che avverrà. Quanto all’accellerazione degli eventi, dal 2000 in poi le catastrofi naturali sono passate da cento a ottocentocinquanta all’anno e parliamo dei soli uragani con fenomeni che diventano sempre più frequenti e violenti.

Il ghiacciaio del Kilimangiaro ha perso il 75% della sua superficie. La massa artica è diminuita del 25% e in Alaska quarantunomila chilometriquadrati di ghiaccio sono già andati perduti. Tanto per dirne tre, ma l’elenco è molto lungo.Il rapporto Schwartz-Randall ipotizzava un mondo portato sull’orlo dell’anarchia da siccità, inondazioni, carestie e sollevazioni popolari e un moltiplicarsi dei conflitti per garantirsi e difendere le fonti di approvvigionamento di acqua, cibo ed energia ma lasciava un barlume di speranza, invitando a interrompere immediatamente l’utilizzo di combustibili di origine fossile, motivo per cui è finito nel trituratore. Il mio rapporto, di undici anni successivo, chiude le porte a qualsiasi residuo ottimismo.

La fase finale della catastrofe è già iniziata ed è troppo tardi per prendere provvedimenti efficaci. La corrente del Golfo sta già rallentando per via della diminuzione del livello di salinità degli oceani, dovuta allo scioglimento dei ghiacciai e all’aumento delle precipitazioni, e ciò provocherà disastrose conseguenze sul clima e sull’agricoltura in Europa. L’innalzamento delle acque marine e lo scioglimento dei ghiacciai stanno procedendo molto più velocemente del previsto. La previsione di un innalzamento delle acque di massimo novanta centimetri in un secolo era considerata addirittura pessimistica fino al 2000 ed era stata iscritta d’ufficio nel filone ecologico-catastrofista, buono solo per produrre qualche kolossal di sicuro effetto e di altrettanto sicuro ritorno economico. E’ risaputo quanto la gente adori i disastri, ovviamente seduta comodamente in poltrona a guardarseli sullo schermo. Poi ci si è accorti con terrore che le cose stavano molto ma molto peggio. Il Larson B, una piattaforma di cinquecento milioni di tonnellate di ghiaccio con una estensione pari al doppio della città di Londra si è disintegrata in meno di un mese, i ghiacciai della Groenlandia si stanno sciogliendo a una velocità che non ha precedenti e infine, il British Antarctic Survey ha rilevato che l’87% dei ghiacciai della penisola antartica si stanno ritirando e negli ultimi cinque anni hanno perso una media di cinquanta metri all’anno.

La previsione, considerata già apocalittica, di un innalzamento di novanta centimetri in cento anni è dunque null’altro che una pia illusione. Altro che novanta centimetri e, soprattutto, altro che cento anni.

La Groenlandia, dal 2005, sta perdendo 250 miliardi di tonnellate di massa ogni anno e il suo scioglimento totale determinerà un innalzamento dei mari di sei metri, mentre l’intera banchisa antartica contiene acqua sufficiente ad arrivare a sessantadue metri. La verità è che nessuno può prevedere quando avverrà e di quanto sarà ma sappiamo con certezza che i tempi vanno ogni giorno restringendosi a causa della progressiva accellerazione degli eventi ed è lecito supporre che si potrebbe arrivare anche a dieci metri di innalzamento delle acque, in tempi che potrebbero anche essere maledettamente brevi”.

Guardò Lupo che rifletteva assorto su quanto aveva appena udito.

“Se per caso divenissimo improvvisamente virtuosi – riprese - cosa di cui, peraltro, dubito molto, non riusciremmo più ad arrestare il meccanismo infernale che abbiamo messo in moto.

Massimo entro dieci anni, quindici a volere essere parecchio ottimisti, la razza umana sarà decimata da inondazioni che muteranno radicalmente la geografia del pianeta, da carestie, epidemie, siccità e naturalmente da sommosse e guerre. I pochi superstiti si dovranno confrontare poi con condizioni di vita proibitive. La natura sta per saldarci il conto, e sarà un conto molto salato. Se la crescita economica avesse dovuto produrre benessere diffuso, da tempo gli abitanti della terra dovrebbero vivere in paradiso. Invece è avvenuto esattamente il contrario e viaggiamo a passi spediti verso la catastrofe produttivistica, verso la VI estinzione della specie dominante.Verso l’inferno. Fingere di ignorare tutto ciò è ormai impossibile, per cui si preferisce negarlo”.

Versò altro caffè nelle tazzine, poi rialzò lo sguardo su Lupo che taceva, cercando di assorbire le informazioni che aveva ricevuto.

“Le grandi lobbyes economiche hanno ingessato l’argomento con l’introduzione del concetto di sviluppo sostenibile, che di fatto significa lasciare le cose come stanno. Eppure il problema è ben chiaro fin dal dopoguerra. Lo stesso Einstein ebbe a dire: le gravi catastrofi ambientali reclamano un cambio di mentalità che obbliga ad abbandonare la logica del puro consumismo e a promuovere il rispetto della creazione.

Ma gli interessi in gioco sono colossali. Il prossimo anno dovremmo firmare il nuovo accordo globale sull’ambiente e mi viene già da ridere. Ormai abbiamo definitivamente accantonato il problema, pensando forse che non parlarne porti la questione a risolversi da sola. D’altronde, se le vie del Signore sono infinite, quelle della cretineria umana non sono da meno e queste conferenze sul clima ormai assomigliano sempre più a quelle belle gite messe in palio dai programmi incentive aziendali. Appena entrata in possesso del nostro studio, mi sono dunque scervellata in mille modi per trovare una via di uscita. Per un anno non mi sono dedicata praticamente ad altro finchè, poco prima di conoscerla a Herat, la possibile soluzione è arrivata, quasi per caso. Lasci che le spieghi...”.

Monteforte uscì dallo studio, incredulo e sconvolto da quanto aveva appreso, dal compito che gli era stato offerto e che aveva accettato dopo una breve e sofferta esitazione, affascinato dall’enormità della sfida che gli era stata proposta. La sua mente continuava a inciampare su quanto gli era stato rivelato. Si chiese per l’ennesima volta se quella donna non fosse davvero impazzita. Ma non era così. Aveva spiegato tutto, giustificato tutto e mentre lo faceva, Lupo sentiva di scivolare fuori da ogni razionalità. Se non fosse stato un uomo dai nervi d'acciaio, sarebbe rimasto schiacciato dall’enormità di quanto aveva udito, ma ora quella enormità, con tutte le sue incredibili implicazioni, gravava sulle sue spalle. Ne avvertiva pienamente il tremendo peso e gli mancava l'aria.

Magri lo attendeva impaziente nel salottino d’attesa.

“Allora, come è andata?”

“Con la promozione sono stato rimosso dal comando”, rispose secco Lupo, buttando lì la prima cosa logica che gli venne in mente. Non aveva nessuna voglia ma soprattutto non poteva dare alcuna spiegazione sull’incontro appena concluso.

Il volto di Magri avvampò di sdegno.

“Che?! Ma sono impazziti?”

A Lupo venne da ridere. Non ha tutti i torti pensò, forse siamo veramente tutti matti. Da legare.

“E ora che farai? Se posso, dove...Insomma, che incarico ti daranno?”

Lupo si tenne sul vago.

“Per il momento sono in attesa”.

Magri era sconvolto.

“Non ci posso credere. Giubilato così, è una follia. Una vera follia”, poi sghignazzò ironico. “Tipico di questi bastardi, comunque. Promuovi e rimuovi. Ti fanno tornare di corsa e zacchete! Te lo tagliano e poi ti dicono pure che ti hanno levato un peso”.

Monteforte cambiò discorso, non aveva senso continuare a girare intorno a quell’argomento.

“Senti, io ho fame ora, al resto penserò domani. Dove mi porti a pranzo? Andiamo al mare, è un secolo che non mangio del pesce come si deve”.

Scesero velocemente le scale fino a trovarsi nel cortile interno del palazzo e salirono sulla Maserati che aveva già il motore acceso.

Lupo prese posto accanto all’autista che si girò verso di lui e lo salutò. “Buongiorno comandante, complimenti per la promozione”.

Monteforte trasecolò. “E tu che diamine ci fai qui?“

Il caporalmaggiore dei paracadutisti Mino Laurenti non si scompose.

“Quello che faccio ormai da tre anni, comandante, ovunque lei sia, il suo conduttore. Sono arrivato questa mattina e mi hanno detto di prendere immediatamente servizio. Dove andiamo?”

Lupo sospirò. “A Fregene, da Salvatore, sai dov’è?”

“Sono di Roma, non ricorda? A proposito le ho portato tutti i suoi effetti personali”.

“Ah, e dove sono?”

“Qui a Palazzo Chigi, comandante. Mi hanno detto che alloggerà presso la foresteria della presidenza del consiglio. Con me sono arrivati anche il maggiore Brandi e tutto il resto dello staff”.

Il cervello di Lupo andava a mille. Erano in Afghanistan con me ieri e ora sono qui, pensò, quindi sono partiti insieme a me, con altri voli. Era turbato. Evidentemente il presidente aveva dato per scontato che avrebbe accettato e non aveva perso tempo, neanche per salvare le apparenze. Laurenti continuò mentre guidava speditamente.

“Ora stanno sistemando gli uffici che le hanno assegnato. Ho lasciato la sua roba lì. Belli, sono sullo stesso piano del presidente”.

Lupo si girò verso Magri, seduto dietro, che lo osservava con aria interrogativa e giocò d’anticipo.

“Ne parliamo dopo, se non ti spiace”.

Più tardi, a tavola, divenne inevitabile affrontare la curiosità di Filippo che ormai lo puntava come un cane da caccia.

“Certo che per essere un trombato il presidente ti tratta bene. Promozione, uffici a Palazzo Chigi, staff personale rimpatriato d’urgenza. O ti stanno indorando la pillola, oppure... Non è che mi nascondi qualcosa per caso?”

Monteforte decise di dargli un taglio. Gli seccava assumere quell’atteggiamento con un amico ma il discorso aveva preso una piega che non lasciava alternative.

“Ascolta Filippo ti ho detto quello che potevo dirti. Non chiedermi altro”.

Il tono con cui le parole furono pronunciate non ammetteva repliche. Tra i due calò un silenzio imbarazzato. Fu Magri a romperlo.

“Scusami Lupo, non volevo. Insomma, ti ho chiesto così, senza riflettere. Non intendevo certamente entrare in vicende riservate. Credimi, conosco le regole del gioco”.

Lupo alzò gli occhi dal piatto. “Non volevo essere sgarbato, Filippo, ma sai meglio di me come vanno certe cose. Dai, non parliamone più. Il pesce è squisito non trovi?”

Magri, sollevato, scoppiò a ridere. “Sì, è veramente ottimo. Senti, e i tuoi come stanno?”

Vedendo che si era tranquillizzato anche Monteforte si rilassò.

“Mio fratello Fosco si è trasferito a Milano dopo la morte dei nostri genitori e sta bene. L’ho sentito una settimana fa, è stato promosso primario, era molto soddisfatto. Clementina è negli Stati Uniti per un master e credo che alla fine rimarrà a vivere lì. Sta con un ingegnere italiano, un cervellone che lavora al MIT. Mi pare felice anche lei”.

Magri annuì col capo. “E tu, Lupo?”.

“E io, cosa?”.

“No, niente, intendevo storie, amori, sesso..?”.

Lupo sogghignò. "Sì, sex and drugs and rock’n roll! Di’ un po’, mi stai per caso chiedendo, con la tua solita incommensurabile delicatezza, se ho qualche storia importante o mi limito a una scopatina quando capita?".

"Oh, e poi l'indelicato sarei io? Cercavo di dimostrare il mio interesse per un amico, poi se non me lo vuoi dire chissene...Senti, invece, per caso, mentre ti aspettavo, sono uscito nel corridoio e ho visto passare una bionda in uniforme da farti cadere la mascella in terra. Ho domandato e ho scoperto che fa parte del tuo staff. Aspetta, tale maggiore..."

"Marcella Brandi", terminò per lui Lupo.

"Già. Proprio quella. L’ha nominata pure il tuo autista poco fa. Te le scegli bene eh? Che figlio di zoccola che sei...”.

Lupo si pulì la bocca con il tovagliolo, poi si versò del vino bianco, un Pinot grigio friulano che si era ben raffreddato dentro il secchiello. Lo sorseggiò lentamente assaporandone l’aroma leggermente fruttato, infine posò il bicchiere e sorrise.

"Sai, non smetterò mai di chiedermi come tu sia arrivato a questo grado nell'esercito. Anzi, come ti abbiano proprio preso in accademia".

Filippo non fece una piega. "Beh, mio padre, non ricordi, il capo di stato maggiore Antonio Magri...".

"Zitto, va! Non metterci in mezzo quel sant'uomo di tuo padre, che ovunque ti avrebbe voluto meno che dove potessero associarti a lui".

Filippo stavolta rise di cuore. " Mancò poco che gli prendesse un colpo quando venne a sapere che avevo fatto domanda per l'accademia. Ti ho mai detto che, tra il serio e il faceto, arrivò a offrirmi dei soldi perché la ritirassi?".

"Non doveva essere una somma consistente, altrimenti avresti accettato", rispose Monteforte sghignazzando.

"No, non fu questo. La colpa fu di una ragazza di Rieti, la figlia del farmacista".

"Oh, mio Dio!", esclamò Lupo.

"Ecco, oh mio Dio fu proprio ciò che dissi quando la vidi per la prima volta. Insomma, una che te la saresti anche sposata... Comunque, lei si era iscritta alla facoltà di medicina dell'Università di Modena dove aveva parenti. Ero pazzo di lei, così per seguirla feci domanda di ammissione in Accademia. Quando mi resi conto di ciò che avevo fatto, era troppo tardi. A quel punto ero lì, e se avessi mollato invece dei soldi mio padre mi avrebbe dato due revolverate. E così rimasi, per la gioia mia, sua, tua, dell'esercito italiano, e della ragazza che, guarda un po', poi è divenuta mia moglie."

"Non mi dire, Claudia?"

"E certo! Quante mogli credi che abbia? Non la sapevi questa storia eh? Certo tu avevi quattro anni meno di me, eri un pischelletto[18], che ne potevi sapere delle storie di noialtri grandi...Comunque, e per tornare a quella tua bionda lì, la Brandi, non mi dire che non ci hai nemmeno provato perché potrei cominciare a mettere in dubbio le tue preferenze sessuali".

"Filippo caro, sappi che di storie su di te ne ho sentite parecchie quando sono arrivato in Accademia, e nessuna era edificante. Quanto alle preferenze sessuali, non te l'ho detto?"

"Cosa?"

"Ho fatto outing", disse Lupo, mortalmente serio. Vide l'amico sbiancare e trasalire, incapace di dire qualcosa.

"Non avrai niente contro i gay, spero", aggiunse poi, infierendo.

"Ma no. Certo che no". Le parole di Filippo uscivano con fatica e arrivavano spezzate, sofferte. Tirò un sospiro doloroso. "Del resto, da quando nel 2016 l'esercito ha ufficialmente aperto le porte agli omosessuali c'è poco da meravigliarsi. Ci stanno. Bisogna solo prenderne atto, solo che non credevo... cioè, voglio dire, non ho mai pensato che tu... Ma scusa, allora quando eravamo insieme a fare quel corso a Civitavecchia e andavamo... ma tu che ci facevi per esempio con quella là, la Mirella, te la ricorderai, no?". Il tono di voce era quasi disperato, adesso.

"Beh, ma io sono bisessuale", aggiunse Lupo, sempre molto serio, mentre allungava le gambe davanti a sé e offriva il volto a una lama di sole che aveva superato le tende del ristorante. "Chissà che non mi riesca di abbronzarmi un filino", terminò chiudendo gli occhi. Sentì un lamento soffocato provenire dal posto di Magri. Aprì un solo occhio e vide che aveva sul volto la stessa espressione desolata di un marito che ha appena scoperto il tradimento decennale della moglie.

"Su, topolino, non fare quella faccina", cinguettò .

Era decisamente troppo e Filippo scattò sulla sedia. Topolino?! Faccina?! Stava per esplodere quando si avvide dell'espressione sul volto di Lupo che era paonazzo per lo sforzo disperato di non scoppiare a ridere.

"Mi stai prendendo per il culo?! Tu, razza di degenerato, debosciato, disgraziato e figlio di puttana... mi stai prendendo per il culo?! Ma sarai stronzo?!"

"Se sei scemo, mica è colpa mia!", disse Lupo raddrizzandosi sulla sedia."L'ho sempre immaginato che sotto sotto eri un pò sprovveduto, ma fino a questo punto...cazzo! Avessi potuto registrarla 'sta scenetta ci vivevo di rendita per i prossimi vent’anni. La faccia che hai fatto...un vero spettacolo!", e scoppiò in una risata fragorosa.

Con un profondo sospiro, Filippo Magri si rilassò sulla sedia. "Giuro, mi hai messo paura".

"E perché, poi? Mica sono il marito di tua sorella".

"Sai che me ne frega di mia sorella. Non ce l’ho. Ma era il crollo di un mito. Per fortuna tutto è bene quel che finisce bene. Fammi capire, però, perché non te la scopi questa Brandi?”.

"Perché sono il suo superiore, perché ho un'etica abbastanza radicata e sesso e lavoro non vanno d’accordo. Tutte scemenze, suppongo, dal tuo punto di vista. E poi, aggiungerei, anche perché come soldato lei è senz'altro meglio di te e di molti altri – soggiunse sgignazzando - e si è guadagnata sul campo il rispetto che le è dovuto".

Magri fece una faccia indisponente. "Meglio ancora, mi piacciono le dominatrici".

"Sei proprio un degenerato", gli ripose Lupo scuotendo la testa divertito.

"Sì, può essere, ma un degenerato felice. E ora, tornando a bomba, che ne pensi della Del Lago? Non sarà una figona come la Brandi, ma ha un fascino..."

"E che palle! Mo’ pure la Del Lago? Tu vorresti che mi scopassi il mondo, mio fratello vorrebbe farmi sposare tutte le sue colleghe e mia sorella, invece, tutte le sue amiche".

"Beh, ma non mi dire. Davvero Fosco ti vedrebbe bene sposato?".

"Eh, senti questa. Vado a una cena a casa sua, l'ultima volta che sono venuto in licenza, e mi fa trovare una tizia, medico pure lei. Oddio, per carità, anche carina, ma sai un tipino tutta casa, ospedale, cena del Rotary e conferenze d'arte. Una serata d'inferno. Almeno per tre volte ho rischiato di cadere addormentato nella minestra".

"Ho capito, ma non te ne fai andare bene una, però. Le amiche di tuo fratello perché sono noiose, la Brandi perché ci lavori insieme, la lituana amica mia manco la vuoi conoscere! Che diamine, in periodi di ristrettezze dovresti fare di necessità virtù"

Lupo scoppiò a ridere. "Ristrettezze? Ma ce le avrai tu le ristrettezze", poi tirò fuori il telefono dalla tasca dei pantaloni e fece scorrere sotto gli occhi dell'amico un elenco infinito di nomi di donne con i relativi numeri di telefono. “Questa è la mitica lettera z, ne avrai sentito parlare, immagino. E’ frutto di anni di ricerche e accurate selezioni in tutto il mondo, e tu me le chiami ristrettezze?”.

Filippo fece l'atto di afferrare il cellulare ma Lupo si sottrasse svelto. "Te lo sogni, bel biondino".

Filippo quasi sbavava, erano anni che la leggenda della lettera z di Lupo girava per i corridoi delle caserme. "Senti, mi prometti una cosa?"

"Dipende...".

"Scrivi sul tuo testamento che se una cannonata ti prende in pieno ma il telefonino si salva, lo lasci a me".

"Oh, che amico affettuoso e sensibile, che vuole assolutamente un mio ricordo – ghignò Lupo - No, non ci penso proprio, che poi, se te lo prometto, finisce che affamato come sei me la tiri pure. Magari, se proprio ci tieni così tanto, una ciocca di capelli andrebbe benissimo".

"Allora, lunga vita a te, Lupo caro, che dei capelli non so che farne", replicò Filippo, sollevando il bicchiere.

Lupo alzò il calice. "A noi, amico mio, a quelli come noi, agli ultimi rimasti!"

Germania superiore- 22 Agosto 9 d.C. - nei pressi del fiume Visurgis

Marciarono per altri dieci minuti, poi sbucarono nella radura. Gli esploratori avevano avvistato i razziatori bructeri a meno di un miglio da loro. Non avevano molto tempo.

Macrino sapeva che non avrebbe potuto impedire l’accerchiamento, i barbari erano troppi. Dopo il lancio dei pila[19], i micidiali giavellotti romani, si sarebbero dunque disposti a orbis, lo schieramento circolare che permetteva di difendersi da ogni lato. Durante le campagne di Giulio Cesare contro i galli, si diceva che trecento legionari, rimasti isolati, avessero tenuto testa in questo modo a seimila guerrieri morini, per oltre quattro ore, fino all’arrivo dei rinforzi.

Oggi vedremo se questa storia è vera, pensò Lucio, poi ordinò ai signifer[20] dei due manipoli di mettersi con le insegne al centro dell’ideale cerchio che sarebbe stato costituito dai soldati romani dopo avere scagliato i loro giavellotti contro i bructeri in avvicinamento.

I tre centurioni si avvicinarono e ricevettero l’ordine di fare schierare i loro uomini su quattro file, qualche metro avanti alle insegne intorno alle quali avrebbero costituito l’orbis dopo avere lanciato. Mancava il primus pilus Cerone che stava scortando i civili verso la salvezza e Macrino ordinò ad Aquila di svolgerne le funzioni.

“Io dovrei badare a te, Lucio. E lo sai bene”, gli disse quest’ultimo quando ricevette l’ordine di prendere il comando dello schieramento romano.

“Marco, se vuoi badare a me, fa’ in modo che i legionari restino compatti e tengano duro. Possiamo anche riuscire a dissuadere quei barbari dal proposito di massacrarci, ma dovremo essere molto convincenti con il gladio. Devono capire che moriranno in troppi. Io sarò in prima fila, accanto a te, così potrai dire che mi hai tenuto d’occhio”, concluse poi con un sogghigno.

Dal limitare della foresta alle loro spalle emersero gli speculatores che correvano come se avessero il fuoco alle calcagna e quando ebbero percorso un centinaio di passi nella radura, apparvero i primi bructeri che li inseguivano. Non appena videro lo schieramento romano i barbari si fermarono. Erano solo l’avanguardia e non erano in numero sufficiente per attaccare subito, rimasero dunque fermi sul limitare della foresta mentre gli esploratori romani raggiungevano i loro commilitoni. L’optio che li comandava, trafelato, si precipitò subito a fare rapporto.

“Il grosso della banda è a meno di mille passi, tribuno. Ci hanno scoperto a un miglio da qui e ci sono venuti addosso come cinghiali rabbiosi. Ho perso sei uomini, ma siamo riusciti a sganciarci. Fortunatamente non hanno cavalleria”.

“Bravo Licinio, disponetevi in ultima fila per recuperare il fiato”, gli ordinò Macrino. Poi impugnò lo scudo da legionario che gli porgeva uno degli uomini della sua scorta e andò a prendere posto accanto ad Aquila, all’estrema destra della linea romana. Il grosso dei bructeri stava uscendo dalla foresta e la massa di barbari che fronteggiavano i romani, distanti circa trecento metri da loro, si andava a mano a mano infoltendo. Quando si sentirono pronti, i guerrieri lanciarono il loro grido di guerra, il barritus, avvicinando gli scudi davanti alla bocca per ottenere un eco più pieno, grave e terrorizzante, e cominciarono ad avanzare. La maggior parte era a torso nudo, alcuni portavano una corta tunica e pochi la corazza. Quasi tutti erano armati di aste chiamate framee, con una testa stretta e corta, affilate e facili da maneggiare e pochi, i nobili, impugnavano invece lunghe spade e asce da guerra. Lucio guardò i suoi uomini, i bructeri li sovrastavano numericamente ma ogni legionario indossava la lorica segmentata, una corazza solida, leggera e flessibile, e un elmo con paranuca e paragnatidi che lo proteggevano dai colpi nemici al tronco e alla testa. Era munito poi di un grosso scudo rettangolare, lo scutum, che lo riparava quasi interamente e soprattutto era perfettamente addestrato al tipo di combattimento che stavano per affrontare.

Insomma, quei guerrieri seminudi erano sicuramente in numero soverchiante, ma i legionari rappresentavano, per equipaggiamento e addestramento, la migliore fanteria pesante del mondo e il tribuno era sicuro della loro capacità di tenere duro, anche in una situazione critica come quella.

Aquila era accanto a lui e gli lanciò un’occhiata di disapprovazione per la posizione troppo esposta per un comandante. Macrino gli rispose con un un sorriso. I razziatori erano abbastanza vicini ora, e le loro urla di sfida e di scherno giungevano nitide alle file dei romani. Per qualche istante il tempo parve fermarsi, poi la voce tonante del centurione veterano sovrastò ogni altro rumore.

“Parati! Pila tollete!”[21]

I legionari impugnarono uno dei due pila di cui erano dotati. Avrebbero lanciato per primo quello leggero, che poteva raggiungere i quaranta metri di distanza e subito dopo quello pesante, da trenta metri. I bructeri stavano avanzando con passo rapido e il terreno rimbombava dei loro passi. Aquila misurava le distanze con occhio esperto, valutando il tempo di volo del pilum. Sapeva di dover colpire le prime file di guerrieri con un lancio concentrato, in grado di spezzare sul nascere l’impeto della loro carica che sarebbe partita proprio in quel punto. Quando giudicò fosse giunto il momento ordinò di lanciare. “Mittite!”[22]

Le quattro linee di legionari, con un intervallo di mezzo secondo una dall’altra, lasciarono partire i giavellotti, imprimendo loro una parabola ascendente/discendente. Le prime file di bructeri avevano appena iniziato a correre quando vennero investite da una pioggia di punte acuminate che ricadevano verso terra. Molti guerrieri caddero trafitti, gli altri andarono avanti ma furono colpiti da una seconda salva che aprì altri vuoti nel loro schieramento.

Mentre i barbari esitavano indecisi e alcuni accennavano a indietreggiare, Macrino decise di cogliere l’attimo per affondare il colpo. Guardò Aquila che annuì velocemente col capo. Era il momento di rischiare, i bructeri erano ancora disorientati dalla pioggia di morte arrivata dal cielo ma entro pochi attimi si sarebbero ripresi. Macrino sapeva bene come andavano quelle situazioni. Doveva colpirli adesso, mentre erano ancora confusi. Il gladio del tribuno si levò verso il cielo e lampeggiò al sole di agosto, mentre la sua voce risuonava sopra ogni altra.

“Signa inferre!”[23]

Era l’ordine di attacco che venne immediatamente trasmesso a tutto lo schieramento dai cornicen[24] con due note crescenti dei loro corni. I legionari lanciarono l’urlo di guerra e presero ad avanzare a ranghi serrati con i gladi che spuntavano dai piccoli spazi che c’erano tra scudo e scudo, mentre i signifer andavano a prendere la loro posizione nei manipoli. I romani percorsero in pochi attimi i venti metri che li separavano dai bructeri e l’urto fra i due schieramenti fu violentissimo. Scudo contro scudo, ferro contro ferro, in un frastuono infernale, la linea romana, ben governata dai centurioni, premeva sulla massa dei guerrieri germani e avanzava mantenendo allineamento e compattezza. Le corte lame dei legionari saettavano senza sosta, mentre le punte acuminate delle framee cercavano invano di insinuarsi tra gli scudi. Macrino e Aquila avanzavano spalla a spalla, come due comuni legionari. Lucio si batteva come un forsennato, il suo gladio non conosceva soste e lo scudo, manovrato con perizia, respingeva indietro i guerrieri nemici. I razziatori si erano però ripresi dallo sgomento provocato dai pila e reagivano adesso con vigore. Macrino notò che si stavano schierando a falange, come loro costume, per respingere l’attacco romano e si avvide che la spinta dei suoi uomini si era quasi esaurita. Erano troppo pochi per spezzare le file compatte dei nemici e indurli alla rotta, anche se gli optiones, che erano dietro a tutti, stavano sospingendo in avanti i legionari quasi fisicamente, incitandoli a mantenere saldo lo schieramento e a fare il loro meglio.

Quell’assalto improvviso aveva avuto successo e molti barbari erano stati uccisi ma era giunta l’ora di schierarsi a difesa per contenere l’inevitabile contrattacco e tenere duro, fino all’arrivo dei rinforzi. Macrino diede ordine di formare l’orbis e in pochi attimi, di fronte ai bructeri strabiliati dalla rapidità della manovra, i legionari si disposero in cerchio, stretti intorno alle loro insegne, con gli scudi che formavano un muro impenetrabile protetto dai corti gladi.

I predoni attaccarono subito cercando un punto debole e perdendo diversi uomini nel vano tentativo di aprire un varco. L’affilato acciaio romano penetrava nelle carni dei guerrieri, sospinti contro i legionari da quelli che premevano da dietro in un clangore pauroso, fatto di urla e gemiti, dalle imprecazioni di chi perdeva l’equilibrio e veniva calpestato e da una miriade di suoni fusi tra loro in una assordante cacofonia. Macrino e Aquila erano accanto alle insegne, al centro dell’orbis, e fu l’esperto centurione ad accorgersi per primo che stava avvenendo qualcosa e a richiamare l’attenzione del suo tribuno su una nuova nota, dal suono diverso, che si era aggiunta alla babele di rumori e di confusione che regnava intorno a loro.

Erano voci che lanciavano in proto-germanico rauchi richiami pieni di preoccupazione. Era evidentemente comparso un nuovo pericolo e i barbari si preparavano a fronteggiarlo, allentando la pressione sugli uomini di Macrino. Dopo qualche istante le note di un corno legionario e l’urlo di guerra della fanteria romana chiarirono cosa stava avvenendo. Il manipolo di rinforzo era arrivato e Lucio comprese che era il momento di sganciarsi e di congiungersi con gli uomini giunti in loro soccorso.

“Ad cuneum! Ad cuneum!”, urlò ai suoi uomini. Non c’era pressione nemica in quel momento e i legionari riuscirono a disporsi velocemente in una formazione d’attacco compatta, a triangolo, che aveva quale vertice il centurione Marco Domizio Aquila e si andava poi ad allargare verso la coda. Piombarono violentemente sui bructeri che non resistettero a lungo al doppio attacco e ripiegarono verso il bosco dal quale erano usciti.

Lucio sapeva bene che non era una fuga definitiva. Era solo una ritirata momentanea, per riorganizzarsi. Tutto secondo le loro consuetudini, e dunque sarebbero tornati, ne era certo. Il tribuno diede una occhiata al campo di battaglia, il terreno era cosparso ovunque di corpi e intriso di sangue. Mentre valutava le perdite dei predoni, con un senso di sgomento vide anche diversi legionari riversi al suolo e ordinò che si raccogliessero subito i feriti. Caio Svetonio Severo, il centurione prior del manipolo che era intervenuto in loro soccorso, lo raggiunse trafelato.

“Manlio Metello Cerone ti invia i suoi saluti, tribuno, e ti avvisa che ci sta venendo incontro con il manipolo rimasto alle navi. Cosa comandi?”.

Macrino guardò il bosco a occidente, dove si erano ritirati i germani. Bisognava approfittare del tempo che stavano concedendo. Il fiume distava ancora sette miglia, non erano poche, ma anche se gli uomini erano stanchi e avevano parecchi feriti da trasportare, potevano percorrere velocemente quel tragitto. Tutti i centurioni erano adesso sopraggiunti e stavano attendendo ordini.

“Aquila, formiamo la colonna e andiamocene. Tu guiderai l’avanguardia, Camillo la parte centrale con i feriti e io la retroguardia”. Poi, senza dare al veterano il tempo per replicare, si rivolse a Severo. “Caio, il tuo manipolo resterà in coda. Siete i più freschi”, spiegò, quasi per giustificare i rischi enormi a cui aveva appena esposto quelle due centurie con il suo ordine. “Io sarò con voi, in ogni caso”, concluse.

Il centurione annuì. “Sarà un onore, tribuno”.

Dopo pochi minuti Aquila e l’avanguardia si misero in marcia, seguiti dopo poco da Camillo Druso col resto della colonna. Lucio, con un occhio sempre puntato al limitare occidentale della foresta, attese che si fossero sufficientemente allontanati, poi diede l’ordine di movimento al manipolo di retroguardia. Appena ebbero lasciato la radura e si furono nuovamente inoltrati nella boscaglia a oriente, gli speculatores si occultarono tra la vegetazione per tenere d’occhio le mosse dei razziatori. Dopo circa quattro miglia percorse a passo sostenuto, quasi si scontrarono con il manipolo di Cerone che stava venendo loro incontro di gran carriera.

“Salve tribuno. Marco Aquila e Camillo Druso dovrebbero essere arrivati al fiume adesso, tutti gli altri sono già sulle navi, la zona di imbarco a terra è presidiata dai classari e....”. Il centurione non riuscì a completare la frase perchè venne interrotto dall’arrivo di uno degli esploratori.

“Tribuno, i bructeri sono a poco più di un miglio. Sono arrivati anche guerrieri a cavallo e arcieri e marciano abbastanza veloci. Li stiamo tenendo d’occhio, badando a non farci scoprire”.

“Maledizione!”, sbraitò Macrino. “Quanti sono?”, chiese poi.

“I cavalieri saranno più di un centinaio, ognuno è accompagnato da un arciere a piedi che gli corre accanto”.

Lucio annuì, li aveva già visti combattere in quel modo. Non c’era tempo da perdere e diede subito gli ordini.

“Caio, porta via il tuo manipolo. Forza muoviamoci, di corsa, di corsa”, poi si rivolse all’esploratore.

“Torna indietro e avvisa il tuo Optio. Ormai è inutile che rimaniate lì, sganciatevi e correte alle navi”.

Il legionario salutò e si allontanò velocemente. Macrino si rivolse poi a Cerone. “Manlio, vedi se una delle tue centurie si offre volontaria, altrimenti sceglila tu. Rimarrà con me di copertura, quei cavalieri non devono piombarci indisturbati alle spalle”.

“Sarà fatto come ordini. Resto anche io con te, tribuno”, gli rispose secco il centurione, prima di allontanarsi.

Si rimisero in marcia ed erano ormai in vista delle navi quando i cavalieri bructeri li attaccarono preceduti da una pioggia di frecce che fece diverse vittime. La mischia si accese furibonda e Macrino fu costretto a schierare nuovamente i legionari in cerchio. Anche se la riva del Visurgis era a meno di duecento passi[25], di fatto era irraggiungibile con quei cavalieri che li incalzavano da presso. In quel momento un suono di corni germanici sovrastò il fragore della battaglia e dalle navi centinaia di occhi guardarono inorriditi i razziatori a piedi sciamare dalla boscaglia, correndo come invasati verso il luogo dello scontro.

Macrino considerò che se non raggiungevano subito il fiume per loro era finita. In quel momento una fiammata alla loro sinistra carbonizzò un cavaliere nemico, seguita subito da altre due. Le sei liburne si erano avvicinate alla riva e le loro artiglierie, baliste[26] e onagri[27], caricate con dardi e proiettili incendiari, stavano bersagliando i barbari. L’effetto devastante di quei colpi creò parecchio scompiglio tra gli assalitori e Lucio pensò che era arrivato il momento di filarsela.

“Presto Manlio, alle navi. Ora, subito!”, ordinò al centurione, poi guardò verso il fiume e vide che era stata realizzata una palizzata a difesa del punto d’imbarco. La nave lusoria[28] che doveva accoglierli aveva intanto accostato alla riva e sul suo ponte erano stati montati diversi scorpioni[29] che avevano aggiunto i loro dardi ai proiettili delle liburne che stavano tempestando il terreno fra loro e i bructeri.

Lucio controllò che nessuno dei suoi fosse rimasto indietro e quando si rese conto di essere l’ultimo romano dello schieramento iniziò a correre verso il fiume e la salvezza. Dopo pochi metri vide un centurione e dei legionari venirgli incontro. Era Aquila con gli uomini della cohors praetoria che in pochi attimi lo circondarono. Protetto dai loro scudi, Macrino pensò con sollievo che forse se la sarebbe cavata anche questa volta. Il manipolo di classiari,[30] che si era schierato oltre la palizzata, pronto a intervenire in caso di bisogno, si aprì per farli passare e finalmente furono a bordo. Coperti dai proiettili di onagri, baliste e scorpioni anche i fanti di marina ripiegarono infine sul battello che lentamente si scostò dalla riva, rimorchiato da due liburne. Quando fu al centro del fiume i rematori iniziarono a vogare. Avrebbero dovuto percorrere molte miglia contro corrente, ma era nulla dopo quanto avevano rischiato. Da una delle agili navi da guerra il giovane tribunus classis[31] che comandava la piccola flotta fece un cenno di saluto a Macrino che rispose, grato per l’aiuto ricevuto dalla marina e pensando che per come si era messa la situazione alla fine era andata fin troppo bene.

“Lucio, ti proibisco di farmi ancora uno scherzo del genere”. La voce di Aquila risuonò irata nelle orecchie del tribuno, cancellando la sensazione di benessere che stava provando. “Non ho discusso i tuoi ordini perchè non era il caso, ma io sono qui per proteggere te, non per svolgere le mansioni di centurione e sarà il caso che tu lo capisca. Tuo padre ti rivuole vivo a Roma ed è compito mio fare in modo che ciò avvenga”. Poi la voce del veterano si addolcì. “Anche se gli farà piacere sapere che suo figlio sta crescendo come un vero comandante romano”.

[1] AMI - Aeronautica Militare Italiana

[2] Visurgis - l’odierno fiume Weser

[3] Tribuno laticlavio - Ufficiale romano. Secondo in grado nella Legione, dopo il Legatus legionis, e superiore agli altri cinque Tribuni augusticlavi. Il Tribuno laticlavio era un giovane patrizio appartenente all’ordine senatorio.

[4] Liburna - Nave con due ordini di rematori, più leggera della trireme e con maggiore mobilità

[5] Centuria - Unità tattica elementare della Legione romana, composta da circa 80 uomini e comandata da un Centurione

[6] Manipolo - Unità tattica elementare della Legione romana formata da due centurie che si schieravano una dietro l’altra e chiamate per questo Prior e Posterior. Il Centurione Prior comandava anche tutto il Manipolo

[7] Coorte - Unità organica della Legione romana costituita da tre Manipoli, salvo la prima Coorte che, avendo un numero doppio di soldati, ne aveva sei ed era chiamata miliaria

[8] Vexillatio - Unità temporanea formata secondo le necessità

[9] Legione - Grande Unità militare di base dell’esercito romano. Assimilabile a una Grande Unità complessa moderna di rango variabile tra una Brigata e una Divisione era composta da dieci Coorti, numerate da I a X

[10] Centurione primus pilus - Primo Centurione della Legione

[11] Miglio romano – 1.480 metri

[12] Tesserarius - portaordini

[13] Optio pl. Optiones – sottufficiali alle dipemdenze dei Centurioni, in battaglia erano posti dietro lo schieramento per mantenere l’ordine tra le truppe. In caso di impedimento per ferita o morte del Centurione ne prendevano il posto. Il simbolo del grado era rappresentato da due piume poste a lato dell’elmo e da un lungo bastone sormontato da una sfera denominato astile

[14] Speculatores - esploratori

[15] Contubernium pl.Contubernia – la più piccola unità della Legione, contava otto uomini comandati da un decano che condividevano la stessa tenda.

[16] Cohors Praetoria - Coorte che forniva i legionari addetti alla protezione ravvicinata degli ufficiali superiori

[17] Peter Schwartz e Doug Randall

[18] Pischello (diminutivo pischelletto) - Ragazzo, ragazzino, in dialetto romano

[19] Pilum – pl. Pila - giavellotto costituito da un’asta in legno sulla quale era inserito un gambo in ferro che riusciva spesso a trapassare lo scudo del nemico e a raggiungerne il corpo. I legionari ne portavano due, uno leggero e uno pesante, che lanciavano, fila dopo fila, prima di giungere a contatto col nemico.

[20] Signifer – vessillifero, l’equivalente del moderno alfiere o portabandiera

[21] Preparatevi! Prendete i pila!

[22] Lanciate!

[23] Avanti le insegne!

[24] Cornicen - Suonatore di corno, insieme a tubicines e bucinatores – suonatori di tromba e di buccina – impartiva gli ordini mediante segnali acustici.

[25] Passo - Unità di lunghezza romana – corrispondeva a cinque piedi, ovvero poco meno di 150 cm.

[26] Balista - Arma da getto che scagliava dardi di 132 cm. fino a 650 mt. di distanza

[27] Onagro - Macchina da lancio capace di scagliare proiettili, anche incendiari, a distanze che potevano raggiungere i 600 mt. Il nome onagro deriva da un asino selvatico il cui scalciare ricorda il movimento dell’arma in azione.

[28] Nave Lusoria - Imbarcazione da trasporto a fondo piatto, molto diffusa nelle flotte fluviali romane per la sua maneggevolezza.

[29] Scorpione - Arma da getto di dimensioni medio-piccole che scagliava con tiro teso dardi e freccioni di 69 cm. fino a 400 mt. di distanza.

[30] Miles classiarius - fante di marina che faceva parte della marina militare romana. L’armamento di un classiario era vario e contava molte più armi di un legionario, dovendo combattere sia in mare che a terra.

[31] Tribunus classis - Ufficiale al comando di una Squadra navale, il grado corrisponde all’incirca a quello di un moderno Contrammiraglio.

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